domenica 2 ottobre 2016

un chiappà manco ni' pagliai

UN CHIÁPPA MÁNCO NI PAGLIÁI

(Non riesce a centrare nemmeno i pagliai). Il modo di dire probabilmente si riferiva all’inizio al gioco delle bocce. In questo gioco, quando si doveva ‟tirare al volo” per colpire la boccia dell’avversario, chi non era molto abile, mancava quasi sempre il bersaglio e veniva preso in giro e apostrofato con questa frase. Oggi il modo di dire si usa in senso generico per indicare chi fallisce qualunque bersaglio. Un = tipica negazione aretina per non. Chiappà = è preferito ai verbi italiani prendere, colpire. Il gruppo chia ha suono occlusivo postpalatale sordo. Mànco = nemmeno. Ni = forma sincopata per nei. Pron. un čappa mankó ni pagliai. [Nella scrittura con simboli la i non viene trascritta perché compresa nel suono č].


un darebbe manco quel che fa dal culo

UN DARÈBBE MÁNCO QUEL CHE FA DAL CÚLO


(Non darebbe nemmeno le feci). È la critica e il rimprovero che si fa a chi è troppo avaro. È un modo di dire molto colorito espresso nell’aretino attuale. Un è la tipica negazione aretina per non. Mànco è usato in funzione avverbiale = nemmeno. Cùlo = è sempre preferito a sedere. Pron. un darèbbé mankó kuél ké fa dal kuló.


un c'è mamc'un annema

UN CÈ MÀNC’UN ÀNNEMA


(Non c’è nemmeno una persona). La frase, detta con stupore e meraviglia in aretino stretto, si usa quando andiamo in un luogo dove ci aspettiamo di trovare molte persone e invece non troviamo nessuno. Un = tipica negazione aretina per non. Mànc’ = apocope di mànco = nemmeno. Ánnema = la doppia n si spiga con il fenomeno della geminazione. La e invece della i è dovuta al fatto che in molte parole aretine la i postonica italiana passa ad e chiusa. Es: stupido > stùpeto. Pron. un c’è mank’un annéma, stupétó.

un ce se ved' un cazzo

UN CE SE VÉD’UN CÀZZO

(Non si riesce a vedere niente). È una frase molto colorita che si pronuncia quando ci troviamo al buio. Un = tipica negazione aretina per non. Ce se = ci si. Le particelle pronominali e l’avverbio di luogo ci in aretino sono sempre pronunciati mé, té, cé, sé, vé. Càzzo =  nei dialetti, compreso l’aretino, si fa largo uso anche di parole che in italiano sarebbero sconvenienti o volgari. In aretino càzzo si usa normalmente come sinonimo di pene, ma nei proverbi e nei modi di dire assume anche altri significati a seconda del contesto  in cui è  inserito. In questo caso significa niente. Pron. un  cé sé véd’un cazzó.

un ne 'mbrocchi una

UN NE ’MBRÒCCHI ÚNA

(Non ne azzecchi una). Si dice a chi, per imperizia o sbadataggine, commette continuamente errori. Un = tipica negazione aretina per non. ’Mbròcchi = forma aferetica di imbròcchi. Il gruppo cchi ha suono velare. Pron. un né ’mbrokki una.

un volé sseghe

UN VOLÉ SSÉGHE


(Non volere preoccupazioni, problemi). Lo dice chi vuol vivere tranquillo. Un = tipica negazione aretina per non. Volé = infinito breve di volér. [S]séghe = problemi: è uno dei tanti significati che assume la parola in aretino. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rs > ss. Pron. un vólé sséghé.

un zapé mmanco de picceli

UN ZAPÉ MMÀNCO DE PÌCCELI

(Non sapere nemmeno di piccioli). Si dice in genere di cibi sciapi. Un = tipica negazione aretina per non. Zapé = infinito breve di sapér. La z è dovuta al fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs, si pronunciano sempre lz, nz, rz. [M]mànco = nemmemo. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rm > mm. De = tipica preposizione aretina per di. Pìcceli = piccioli, peduncoli dei frutti. La e si spiega con il fatto che il dittongo postonico  italiano io, in aretino passa spesso ad e. Es. noccioli > nòcceli. Pron. un zapé mmankó dé piccéli, nòccéli.


un ze frigge mica co' l'acqua

UN ZE FRÍGGE MÍCA CO’ L’ÁCQUA!

(Non si frigge mica con l’acqua)! La frase si usa quando qualcuno ci loda per un lavoro ben fatto volendo ribadire che abbiamo il mestiere, che usiamo i modi giusti, che sappiamo usare gli strumenti giusti. Un = negazione aretina per non. Ze = la z si spiega con il fatto che il gruppo italiano ns in aretino è sempre pronun- ciato nz. Mìca = è usato come rafforzativo. Co’= forma apocopata di con. La mancanza della geminazione della l che in questi casi avviene sempre nel dialetto aretino, si spiega con il fatto che il gruppo co’ la è qui usato come preposizione articolata colla e le preposizioni articolate sono sempre pronunciate staccate e degeminate: dello > de lo, alla  =  a la. Pron. un zé  friggé mika  kó’

l’akkua!

um m'emporta manco 'na sega

UM M’EMPÒRTA MÁNCO ’NA SÉGA


(Non me ne importa niente). È un modo di dire molto usato espresso nell’aretino attuale. Um = tipica negazione aretina per non. Nella pronuncia la n si assimila alla consonante che segue nm > mm. M’ = apocope di me: in aretino le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé, vé. Mànco = nemmeno. ’Na = una. Séga = il significato originario è  masturbazione maschile, ma viene usato anche come sinonimo di niente: so ’na séga = non so niente. Esistono anche locuzioni simili, sempre espresse nell’aretino più schietto come um m’empórt’un càzzo. Pron. um m’émpòrta mankó’na séga, so ’na séga, um m’émpòrt’ un kazzó. 

una ne fa cento ne penza

ÙNA NE FA CÈNTO NE PÈNZA


(Una ne fa cento ne pensa). Si dice di persone particolarmente attive che anche quando fanno un lavoro, magari particolarmente impegnativo, riescono a pensare a quello che faranno in seguito, di chi ha la mente sempre in movimento. Pènza = la z è dovuta al fatto che in aretino i gruppi italiani ls, ns, rs sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Pron. una né fa ȼèntó né pènza.

una rondena un fa primavera

UNA RÓNDENA UN FA PRIMAVÉRA


(Una rondine non fa primavera). È la versione aretina del ben noto proverbio italiano. Róndena = rondine. L’aretino non gradisce incertezza di genere, perciò sostituisce la desinenza ambigua con un’altra più idonea a far riconoscere il genere. Es: felce > félcia, mano = màna. La e si spiega con il fatto che la i postonica italiana in aretino passa spesso ad e, sprattutto quando è preceduta da consonante geminata. Es: manico > mànneco. Un = tipica negazione aretina per non. Primavéra = a differenza dell’italiano la e tonica ha suono chiuso. Pron. una róndéna un fa primavéra.

un c'è chiavato

UN C’È CHIAVÁTO!

(Non c’è portato)! Si dice in tono ironico di chi si ostina a fare qualcosa per la quale non ha assolutamente attitudine. Un = tipica negazione aretina per non. Chiavàto = verbo denominale da chiave, cioè è come se la persona criticata non avesse la chiave che gli permette di aprire la porta di quella attività. Il gruppo chia ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Pron. un c’è čavató. [Nella scrittura con simboli la i non viene trascritta perché compresa nel suono č].


unc'è cristi che tenga

UN C’È CRÌSTI CHE TÈNGA


(Non ci sono scuse, non c’è niente da fare). Si dice con rassegnazione o con risentimento quando la situazione diventa insostenibile. Un = tipica negazione aretina per non. C’è, tènga = l’aretino predilige il verbo al singolare anche quando il soggetto è plurale. Crìsti = è qui usato nel senso di validi motivi. Pron. un c’è kristi ké tènga.

un ce se vede manco 'na sega

UN CE SE VÉDE MÀNCO ’NA SEGA


(Non si riesce a vedere niente). Si dice quando ci troviamo al buio e non abbiamo a disposizione nessun tipo di luce. Un = tipica negazione aretina per non. Ce = in aretino l’avverbio di luogo italiano ci è sempre pronunciato ce. Se = si. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. Mànco = nemmeno. Séga = niente, è uno dei tanti significati che assume la parola in aretino. Pron. un cé sé védé mankó ’na séga.

unn'aé mmanc'un duino

UNN AÉ MMÀNC’UN DUÌNO

(Non possedere nemmeno un duino), cioè essere estremamente poveri. Oggi, con l’euro, diremmo non avere nemmeno un centesimo. Unn = negazione aretina per un con geminazione di n che si ha sempre quando n è seguita da vocale probabilmente per una pronuncia più agevole. = forma sincopata e apocopata di avér. [M]mànco = nemmeno. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rm > mm. Duìno = vecchia moneta  del valore di due centesimi.
Pron. unn aé mmank’un duinó.

unn'antes'a sordo

UNN ANTÉS’A SÓRDO

(Non capì come un sordo). Si dice con tono ironico o di rimpro- vero a chi fa tutto il contrario di quanto richiesto. Unn = tipica negazione aretina per non. Quando la n è seguita da vocale si ha sempre la geminazione n > nn. Antés’ = forma apocopata  per intese. In aretino stretto la i protonica italiana passa a volte ad a. Es: intrisa > antrìsa. Pron. unn antés’ a sórdó.


unn'avé mmanco la via da caminare

UNN’AVÉ MMÀNCO LA VÌA DA CAMINÀRE


(Non avere nemmeno la strada su cui camminare). Si usa in senso metaforico nel significato di essere molto poveri. Unn’ = tipica negazione aretina per non. Avé = infinito breve di avér.[M]mànco = nemmeno. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonanate che immediatamente segue rm > mm. Cami- nàre = tipico fenomeno aretino di degeminazione mm > m. Pron. unn’avé mmankó la via da kaminaré.

unn'è 'l bere, è l'arbere

UNN’È ’L BÉRE, È L’ARBÉRE


(Non è il bere, è il ribere), cioè ciò che fa male è l’abuso. Unn’è = non è. Quando la negazione un precede una parola che inizia per vocale si ha sempre la geminazione della n. ’L = forma aferetica dell’articolo el per evitare la cacofonia e-e. Arbére = ribere. Il prefisso iterativo aretino è ar invece di ri. Pron. unn’è ’l béré, è l’arbéré.

unn'è pane pi' tu' denti

UNN’È PÀNE (o CÌCCIA) PI’  TU’ DÈNTI!

(Non è pane o carne per i tuoi denti). È una frase in aretino attuale che si usa sempre in senso metaforico. Significa non è cosa per te, non sei in grado di farlo, è al di fuori delle tue possibilità. Unn’ =  tipica negazione aretina per non. Quando un è seguito da vocale si ha sempre la geminazione di n. Es: non ho > unn’ò. Cìccia = termine toscano per carne. Pi’ = concrezione di per i. Tu’ = apocope di tuoi. In aretino gli aggettivi possessivi sono sempre pronunciati apocopati e preceduti dall’articolo. Es: mio padre > el mi bàbo. Pron. unn’è pané o ȼiccia pi’ tu’ dènti!, él mi’ babó.


un z'azzitta mai

UN Z’AZZITTA MAI!


(Non sta mai zitto). Si dice di chi parla troppo e spesso a spropo- sito. Un = tipica negazione aretina per non. Z’ = ze = si. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. In questo caso la z è dovuta al fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs, sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Azzìtta =  è la terza persona singo- lare del presente indicativo del verbo azzittàre. La a è dovuta al fatto che in aretino a molti verbi viene premessa una a prostetica, la doppia z al fenomeno della geminazione. Pron. un z’azzitta mai.

un ze pol mica fasselo sempre mette nnel culo

UN ZE PÓL’ MÌCA FÀSSELO SÈMPRE MÈTTE NNEL CÙLO!

(Non si può mica farsi sempre sodomizzare)! È un modo di dire molto colorito usato in senso metaforico. Ha vari significati come non si puo’ sempre soprassedere, non si può sempre sopportare, non si può sempre far finta di niente, non si può sempre lasciar correre, non si può sempre passare da fessi e così via. Un = tipica negazione aretina per non. Ze = la z si spiega con il fatto che i gruppi ls, ns, rs in aretino si pronunciano sempre lz, nz, rz. Es: insieme = inziéme. Pol’ = apocope di póle = può. È la tipica forma aretina della terza persona singolare del presente indicativo del verbo potere (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Mìca = rafforzativo della negazione. Fàsselo = farselo, con assimilazione rs > ss. Métte = infinito breve di métter. [N]nel = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rn > nn. Cùlo = nell’uso è sempre preferito a sedere. Pron. un zé pól’ mika fasséló sèmpré métté nnél kuló!


un ze sa piue a che santo votasse

UN ZE SA PIÙE A CHE SÀNTO VOTASSE

(Non si sa più a quale santo votarsi). È una frase che si usa spesso in situazioni difficili e precarie dalle quali non si sa come uscire, nonostante si siano provate tutte le soluzioni possibili e che solo un intervento miracoloso potrebbe risolvere. Un = tipica negazione aretina per non. Ze  =  si. Il si  impersonale in aretino si pronuncia sempre se. La z è dovuta al fatto che i gruppi ls, ns, rs, in aretino sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Piùe = più con e paragogica. Votàsse = votarsi. Ásse è la tipica desinenza aretina dell’infinito riflessivo formatasi dall’assimilazione rs > ss e dalla pronuncia del si riflessivo che in aretino è sempre se. Pron. un zé sa piué a ké santó vótassé.


uscì dda gangheni

USCÌ DDA GÀNGHENI

(Uscire dai cardini). È come dire uscire dal seminato, cioè avere un comportamento non consono, sconsiderato. Uscì = infinito breve di uscìr. [D]da = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rd > dd. Gàngheni = voce aretina per cardini derivata direttamente dal greco kankalòs con doppia lenizione k,k > g,gh e cambio di suffisso alo > éno.  Pron. uscì dda ganghéni.


u llascià gnente perzo

U LLASCIÀ GNÈNTE PÈRZO


(Non lasciare niente perso). Si usa con vari significati: non lasciare niente di intentato, stare attenti anche alle più piccole cose, cercare di accaparrare tutto ciò che si può. U = apocope della tipica negazione aretina  un. La  n è assimilata alla l di lascià nl > ll. Gnènte = la n iniziale dell’italiano niente in aretino ha pronuncia laterale prepalatale n > gn. Pèrzo = la z è dovuta al fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Pron. u llascià gnènte pèrzó.

un z'acumpiccia gnente

UN Z’ACUMPÍCCIA GNÈNTE

(Non si riesce a fare niente).  Si dice quando un lavoro non procede nel modo dovuto o perché particolarmente difficile o per incapacità. Un = tipica negazione aretina per non. Z’ = sostituisce l’italiano s. In aretino infatti i gruppi ls, ns, rs  non esistono e sono sostituiti da lz, nz, rz. Acumpìccia è la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo acumpicciàre, variante del toscano compicciare. A molti verbi l’aretino premette una a prostetica . Gnènte = niente. La pronuncia della n di niente non è una semplice nasale come in italiano, ma una nasale laterale prepalatale, quindi con pronuncia gn: niente > gnènte. Pron. un z’akumpiccia gnènté.


un ze pole fasse sempre coglionare

UN ZE PÓLE FÀSSE SÈMPRE COGLIONÀRE

(Non si può sempre fare la figura da fessi). È una frase in aretino
stretto che viene dal lontano passato. Nel mondo contadino le dispute tra padrone e contadino per la divisione dei raccolti erano piuttosto frequenti e naturalmente aveva quasi sempre la peggio il mezzadro che sfogava la sua rabbia pronunciando questa frase. Un = tipica negazione aretina per non. Ze = le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. La z di ze si spiega con il fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Póle = può. Il verbo potere in aretino ha una coniugazione propria (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Fàsse = farsi. Nella desinenza dell’infinito dei verbi riflessivi si ha l’assimilazione rs > ss e il si ha pronuncia sé. Coglionàre = denominale da coglióne = fesso. Pron. un zé pólé fassé sèmpré kógliónaré.


va fatte fottere

VA FÀTTE FÓTTERE!


(Vai a quel paese)! È uno dei modo più garbati per invitare qualcuno a togliersi di torno. La mancanza della a tra va e fatte si spiega con il fatto che in aretino, con i verbi di movimento, spesso la a non viene pronunciata: vado a Arezzo > vàdo Arézzo. Fàtte = farti, infinito breve fàr e particella pronominale te con assimilazione rt > tt. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. Fóttere = è  usato nel senso di possedere carnalmente per non ricorrere ad espressioni considerate più triviali come va pigliàllo ’n cùlo. Pron. va fatté fóttéré, va piglialló ’n kuló.

val più 'na botta che cent'arri

VÀL’ PIÙ ’NA BÒTTA CHE CENT’ARRI


(Vale più una percossa che cento incitamenti, cioè a volte è più utile parlare poco e passare direttamente all’azione). Il modo di dire nasce nel mondo contadino. Per far partire gli animali da tiro si usava dire loro: àrri, ma certe volte, soprattutto se gli animali erano stanchi, indugiavano, allora il contadino dava una bella frustata e l’animale partiva. Bòtta = colpo, percossa. Il termine arri non è propriamente tipico dell’ aretino. Compare solo in questo modo di dire, in aretino infatti solitamente si usa l’espressione arilàe formata da àri e con e paragogica. Pron. val più ’na bòtta ké ȼént’arri.

vattelapesca

VATTELAPESCA!


(Vattela a pescare)!, cioè vai a capire, chissà chi lo sa! Si dice ogni volta che abbiamo grossi dubbi, quando non si sa cosa rispondere o cosa fare. Vattelapésca = è la concrezione di vattela a pescare in cui pescare si trova nella forma apocopata. Si usa indifferentemente anche l’espressione vattachiàppela che è la concrezione di vatti e  chiappela. Vàtti = vai tu. Chiàppela = prendila. In aretino chiappàre è sempre preferito a prendere. Il gruppo chia ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Pron.vattélapéska! Vattačappéla!  [Nella scrittura con simboli la i non viene trascritta in quanto già compresa nel suono č].

vedo uno cacare, con un sasso lo facci' arizzare

VÉDO ÙNO CACÀRE, CON UN SÀSSO LO FÀCCI’ARIZZÀRE

(Vedo uno defecare, con una sassata lo faccio alzare). È un modo di dire molto strano, in uso nel secondo dopoguerra,  ma ha una sua spiegazione logica. Negli anni cinquanta, sessanta, la maggior parte delle case coloniche non aveva ancora il gabinetto e per i bisogni si doveva andare nel campo. Soprattutto i ragazzi, quando vedevano una persona accovacciata per defecare, si divertivano a lanciarle dei sassi e naturalmente chi era disturbato nell’espletamento di questa funzione, si alzava per vedere chi era il molestatore, allora i ragazzini dicevano la frase in questione. Cacàre = in aretino è sempre preferito a defecare. Sàsso = sassata. Arizzàre =  la a iniziale si spiega con il fatto che in alcuni verbi viene premessa una a prostetica. Es: reggere > areggere, cominciare > aguminciare. Pron. védó unó kakaré, kón un sassó ló facci’arizzaré.


viè qqua che t'asciugo

VIÈ QQUÁ CHE T’ASCIÚGO


(Vieni qua che ti asciugo).  Si dice con tono ironico o di rimprovero a chi si dichiara stanco pur avendo fatto poco o niente. Viè = imperativo breve di vién’. Come nel caso dell’infinito breve, anche nell’imperativo breve la n si assimila alla consonante che immediatamente segue nq > qq. Pron. viè kkua ké t’asciugó.

vinìr' a pipa de cocco

VINÌR’A PÌPA DE CÒCCO    


Detto di un lavoro significa viene proprio come si deve, in modo perfetto, di un avvenimento, che si verifica nel momento giusto. Vinìr = infinito apocopato di vinìre. La i protonica che sostituisce la e italiana si deve all’armonia vocalica tipica del dialetto aretino. De = tipica preposizione aretina per di. Còcco = difficile stabilire il significato esatto della parola: potrebbe essere la forma sincopata di coccio, materiale con cui si costruivano un tempo le pipe, potrebbe essere la trasformazione dell’espressione latina ad hoc nel senso di una pipa adatta allo scopo. Pron. vinìr’ a pipa dé kòkkó.

vi ppi su' piedi


VI PPI SU’ PIÉDI

(Andare per i suoi piedi). È un modo di dire in aretino stretto. Si dice quando le cose vanno nel verso giusto. Vi = infinito breve di vìr. [P]pi = forma sincopata di péi = per i. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rp > pp. Su’ = forma sincopata e apocopata molto in uso nell’aretino per suoi. Pron.vi ppi su piédi.

vir' a bischero sciolto

VÌR’A BÌSCHERO SCIÒLTO


(Muoversi senza cognizione di causa). Si dice ogni volta che una persona compie un’azione sconsiderata. Vìr’ = infinito apocopato per vìre. Nell’aretino del secondo dopoguerra il verbo andare aveva tre forme: ìre, gìre, vìre. Attualmente è rimasta la sola forma ìre mentre le altre sono cadute in disuso. Bìschero = si ignora l’esatta origine della parola che in aretino assume vari significati. Nel nostro caso significa persona sconsiderata, che agisce d’impulso, senza riflettere. Sciòlto = l’aggettivo è qui usato come rafforzativo nel senso che sottolinea un comportamento che si discosta dalla normalità. Pron. vir’ a bìskéró sciòltó.

vir' a bocconi

VIR’ A BOCCÓNI


(Andare a bocconi), cioè cadere con la pancia e la faccia rivolte a terra. È una caduta tipica dei bambini. Vìr’ = apocope di vìre. Delle tre forme esistenti in aretino ìre, vìre, gìre, solo ìre è attualmente in uso. Boccóni = accrescitivo di bocca volto al maschile e al plurale. Pron. vir’a bókkóni.

vir' a buco ritto

VÌR’ A BÙCO RÌTTO
(Fare una rovinosa caduta). Vìr = infinito apocopato di vìre. Bùco = è quello dell’ano. Rìtto = diritto, quando si cade cioè si rimane con il sedere rivolto verso l’alto. Si dice anche vir’a culpunzóne o vir’a gàmbe rìtte. Pron. vir’ a bukó rittó, a kulpunzóné, a gambé ritté.

vir' a la busca

VÌR’A LA BÙSCA

(Andare a caso alla ricerca di qualcosa).  La frase si usa ogni qualvolta non sappiamo l’esito della ricerca. Bùsca =  deverbale dal verbo buscàre. In aretino  si usa in due significati: prendere botte

o cercare di guadagnare. Pron. vìr’a la buska.

vir' a letto co' le galine

VÍR’A LÈTTO CO’ LE GALÍNE
(Andare a letto con le galline). Gli animali entrano spesso nei proverbi e nei modi di dire popolari. Ciò è dovuto al fatto che nel passato la maggior parte della popolazione era dedita all’agricoltura e viveva a continuo contatto con gli animali. In particolare gli animali da cortile erano una fonte di sostentamento insostituibile. Va anche ricordato che la vita del contadino era ed è ancora oggi scandita dal sorgere e dal tramontare del sole e che anche le galline seguono lo stesso ritmo per cui l’accostamento della loro vita a quella dell’uomo è del tutto legittimo. Vìr’ = forma apocopata del verbo vìre = andare. Nell’aretino del secondo dopoguerra il verbo andare era presente in tre forme: ìre, gìre, vìre. Oggi sopravvive solo la forma ìre. Co’ le = con le e poi per assimilazione colle, ma in aretino le preposizioni articolate sono sempre pronunciate staccate e degeminate. Es: dello > de lo. Galìne = galline. La l mancante rispetto alla forma italiana si spiega con il fenomeno della degeminazione. Pron. vir’a lèttó kó lé galiné.

vir' a opra

VÍR’ A ÓPRA
 (Andare a lavorare a giornata). Era un modo di dire molto usato

nel passato, oggi caduto in disuso a causa dell’industrializzazione agricola. Fino al secondo dopoguerra il lavoro agricolo era svolto completamente a mano o con l’ausilio dei buoi. In particolari occasioni come la semina, la mietitura del grano, la vendemmia, la mano d’opera fornita dalla famiglia del contadino era insufficiente e occorreva ricorrere a lavoratori giornalieri che venivano ricompensati cantraccambiando o con parte dei raccolti. Vìr’ = infinito apocopato di vìre. Ópra = op[e]ra. La parola deriva direttamante dal latino opus-operis = lavoro. Pron. vìr’a ópra. 

vir' a rotta de collo


VÌR’A RÓTTA DE CÒLLO

(Andare a rottura di collo, cioè  molto velocemente). La frase è rivolta con tono di rimprovero a tutti coloro che per la strada vanno troppo velocemente costituendo un pericolo per se stessi e per gli altri. Si dice anche vìr’ a tùtto mànneco. Vìr’= andare. Nell’aretino del dopoguerra il verbo andare in aretino aveva tre forme: ìre, gìre, vìre. Attualmente è sopravvissuta solo la forma ìre. Rótta = è qui usata come sinonimo di rottura. De = tipica preposizione aretine per di. Mànneco = manico, cioè gas. La doppia n si deve al fenomeno della geminazione. La e si spiega con il fatto che la i postonica  italiana in aretino passa spesso ad e soprattutto se preceduta da consonante geminata. Es: domenica > doménneca.  Pron. vir’a rótta dé kòlló.


vir' a rubba

VÌR’ A RÙBBA


(Andare a ruba). È un modo di dire in aretino stretto. Si dice di qualunque cosa che si ottiene a buon mercato. Vìr’ = infinito apocopato di vìre = andare. Delle tre forme tipiche dell’aretino del passato gìre, vìre, ìre, solo ìre è attualmente in uso. Rùbba = ruba, deverbale da rubbàre = rubare con geminazione di b. Pron. vir’ a rubba.

vir' a tastoni

VÌR’A TÀSTONI
 (Andare a tastoni). È una variante di vìr’ a tentóni, cioè alla cieca, tastando il terreno con le mani o con i piedi. Vir’ = infinito apocopato di vìre. Delle tre forme aretine tipiche nel passato, ìre, vìre, gìre, solo ìre è attualmente in uso. Pron. vir’a tastóni, a téntóni.

vir' a tutto mugghio

VÍR’ A TÚTTO MÙGGHIO
(Andare a tutta velocità). È come dire andare a tutto manico a tutto gas. È un modo di dire in aretino stretto. Vìr’ = infinito apocopato di vìre  = andare. Delle tre forme esistenti in passato ìre, gìre, vìre, solo ìre è attualmente in uso. Mùgghio = muggito, metafora per indicare il rombo del motore. Il gruppo gghio ha pronuncia occusiva postpalatale sonora. Pron. vir’ a tuttó muĝĝó. [Nella scrittura con simboli la i non viene trascritta in quanto già compresa nel suono ĝ].

vire lemme lemme

VÌRE LÈMME, LÈMME
(Camminare lentamente e con andamento solenne). È una frase in
aretino stretto che ormai usano solo gli anziani. Il significato del modo di dire si deve all’avverbio lèmme che deriva dall’avverbio latino leve = leggermente,  incrociato con  l’aggettivo sollemnis = solenne. Vìre = andare. Delle tre forme che si usavano in aretino vìre, gìre, ìre, solo ìre è attualmente usato. Pron. viré lèmmé, lèmmé.


vire 'n ballodole

VIRE ’N BALLÓDELE


(Andare in rovina ed anche morire). È un modo di dire toscano molto antico. Vìre = in aretino il verbo andare aveva tre forme: ìre, gìre, vìre. Delle tre gìre e vìre sono ormai disusate, mentre sopravvive ìre che mantiene la tipica struttura latina. ’N = forma aferetica di in. Ballódele = Ballodole, valle delle lodole, località tra Careggi e Trespiano, sede un tempo di un cimitero. Il passaggio della o ad e si spiega con il fatto che in aretino la o postonica passa spesso ad e chiusa. Es: tavola > tàvela. Pron. viré ’n Ballódélé.

vire 'n brodo de giuggele

VÌRE ’N BRÓDO DE GIÙGGELE


(Essere contenti al massimo). È un modo di dire molto antico che nella forma originaria era vìre ’n bródo de sùccele. Succiole è il termine toscano con cui vengono chiamate la castagne lessate. Il passaggio da sùccele a giùggele sembra sia avvenuto nel XVIII° secolo ed è forse dovuto al fatto che le parole hanno suoni simili e che le drupe del giuggiolo sono molto dolci poiché sono ricche di zucchero. Vìre = andare. Nell’aretino del passato esistevano vìre, gìre, ìre. Delle tre forme solo ìre è attualmente in uso. De = tipica preposizione aretina per di. Giùggele = in aretino il dittongo italiano e toscano io postonico, soprattutto se preceduto da consonante doppia, passa a e chiusa. Es: nocciolo > nòccelo. Pron. viré ’n bródó dé giuggélé.

vire 'n piazza

VIRE ’N PIÀZZA

(Andare in piazza). Si dice, di solito con tono ironico e scherzoso, di chi perde i capelli rimanendo calvo. Vìre = andare. Delle tre forma esistenti in aretino ìre, gìre, vìre, solo ìre è attualmente in uso. Piàzza = metafora per testa pelata. Pron. viré ’n piazza. 

vir 'in cimbanelle

VÌR’IN CIMBANÈLLE
(Andare in confusione). Si usa ogni volta che entriamo in confusione come un ubriaco che, alterato dai fumi dell’alcool, non riesce a parlare o ad agire in modo corretto. Probabilmente l’origine del modo di dire è da ricercare nel culto della dea Cibele dove gli adepti suonavano il cembalo e ballavano essendo invasati. Cimbanelle = diminutivo dell’italiano arcaico cimbalo. Pron. vir’in ȼimbalèllé.

vire 'n maravalle

VÌRE ’N MARAVÀLLE


(Andare in una amara valle), quindi in senso generico andare in rovina e specificatamente morire. È un modo di dire che oggi usano solo persone molto anziane. Vìre = delle tre forme presenti in aretino, ìre,vìre, gìre, solo ìre è attualmente usata. Maravàlle = estratto dal canto ‟Libera me, Domine”, attinente alla liturgia dei morti [dies magna et] amara valde (giorno grande e) molto fune- sto, con aferesi di a e ass. ld > ll. Pron. viré ’n maravallé.

vive dda tapino

VÌVE DDA TAPÌNO

VÌVE DDA TAPÌNO

(Vivere da  tapino), cioè di stenti, poveramente. Era una condizione sociale molto diffusa nel secondo dopoguerra, soprattutto per contadini ed operai. Vìve = infinito breve di vìver. [D]da = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rd > dd. Il significato della parola deriva dal latino tapinus che è dal greco tapeinos = di bassa condizione. Pron. vivé dda tapinó.


vu fer a cuprino?

VU FÈR’A CUPRÌNO?


(Vuoi fare a chi ne ha di più)? È un modo di dire espresso in aretino stretto. Era una frase che si usava spesso nel passato quando due persone sostenevano di possedere una più dell’altra. Vu = vuoi. Il verbo volere ha in aretino una coniugazione propria (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Fèr’ = infinito apocopato di fère. La e si spiega con il fatto che nell’aretino del passato la a tonica italiana passava ad e aperta. Es: pàne > pène. Oggi il fenomeno è scomparso. Cuprìno = deverbale da cuprìre = coprire. È la parola chiave della frase perché ci fa capire che le sostanze di uno potrebbero coprire, cioè soverchiare quelle dell’avversario. Pron. vu fèr’a kuprinó?