mercoledì 5 ottobre 2016

gna lavorà ffitt' e 'n giova

GNA LAVORÀ FFÍTT’E ’N GIÓVA


(Bisogna lavorare molto e non giova). Era una frase ricorrente nella bocca dei nostri nonni poiché la povertà era dilagante, soprattutto nel mondo contadino dove il lavoro era tanto e il risultato spesso modesto. Gna = forma aferetica di bisogna, molto usata nell’aretino del passato. Lavorà = infinito breve di lavoràr. [F]fitt’ = apocope di fìtto = molto. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rf > ff. ’N = aferesi di un per non. Pron. gna lavórà ffitt’é ’n gióva.

gne da di mme manda lu'

GN’E DA DI MME MÁNDA LU’

(Gli devi dire mi manda lui).  È una frase espressa nell’aretino più stretto che si usa quando mandiamo un amico dall’amico per ottenere un favore. Gni in aretino si usa per indicare indifferentemente  gli, le, a lui, a lei, loro cioè come complemento di termine. È è la seconda persona singolare dell’indicativo presente del verbo avere = hai (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Di è l’infinito breve di dìr. [M]me = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante  che immediatamente segue rm > mm. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, invece di mi, ti, ci, si, vi. Lu’ è la forma apocopata di lui. Pron. gn’è da di mé manda lu’.


gni fa com' el cazz' a le vecchie

GNI FA CÓM’EL CÀZZ’A LE VÈCCHIE

(Ha lo stesso effetto del pene per le donne vecchie). È un modo di dire molto colorito espresso nell’aretino più schietto ripreso dai rapporti sessuali tra uomo e donna. Si dice di tutto ciò che non ha nessuna efficacia. Gni =  gli, è un complemento di termine che traduce le forme italiane gli, le, a lui a lei, loro. Vècchie = il gruppo cchie  ha suono occlusivo postpalatale sordo. Pron. gni fa  kóm’él kazz’a lé vèččé. [Nella pronuncia con simboli la i non viene trascritta perché già compresa nel suono č].


gni manca la terra sott' i piedi

GNI MÀNCA LA TÈRRA SÓTT’ ’I PIÉDI

(Gli manca la terra sotto i piedi). Si dice di chi sta vivendo una situazione di difficoltà e, in senso ironico o di rimprovero, di chi è incontentabile. Gni =  è un complemento di termine che traduce le forme italiane gli, le, a lui, a lei, loro. ’I = aferesi di ai. Pron. gni manka la tèrra sótt’i piédi.



ha la faccia com' el culo

HA LA FÁCCIA CÓM’EL CÚLO o HA N’A FÁCCIA DA CÚLO

(Ha la faccia come il sedere). Il sedere è una parte del corpo di cui si ha scarsa considerazione perché è da lì che si espellono gli escrementi, quindi la frase è un’ingiuria molto grave che si rivolge a persona di cui non si ha nessuna stima, perché ritenuta poco affidabile, o bugiarda, o amorale, o ipocrita, o incapace di provare vergogna. Pron. a la faccia kóm’él kuló.

icce de scartina

ÌCCE DE SCARTÌNA

(Andarci di scartina). Si usa in senso figurato. Significa fare qualcosa con leggerezza, senza il dovuto impegno o senza avere mezzi adeguati.  Ícce =  infinito del verbo ìre formato da ir e ce, con assimilazione rc > cc. L’avvervio di luogo italiano ci in aretino è sempre pronunciato ce. De = tipica preposizione aretina per di. Scartìna = nella Briscola è una carta di minimo valore, quindi non adeguata per fare gioco. Pron. iccé dé skartina.


'ie ce l'ho frunzuti

’IE, CE L’ HÒ FRUNZÚTI


(Si, ne ho in abbondanza).  È la frase che si dice sempre in senso ironico a chi ci chiede qualcosa di valore, in special modo un prestito in danaro, facendogli capire che non abbiamo la minima intenzione di concederlo. Ie = sìe, forma aferetica e paragogica di si. Frunzùti = fronzuti, cioè ricchi di foglie e in senso metaforico in abbondanza. La prima u si spiega con il fatto che la o protonica italiana in aretino passa spesso ad u. Es: ortica > urtica. Pron. ié, ȼé l’ò frunʑuti.

'ie ciò gusto

’ÍE, CIÒ  GÙSTO!


(Si, ci ho gusto), cioè mi piace, sono contento! Si dice ogni volta che siamo soddisfatti perché le cose sono andate come desideravamo. La frase al negativo è: ie, un ciò pùnto gùsto. Íe = forma aferetica di con e paragogica. Ciò = ci ho. In aretino si pronuncia tutto attaccatto e con la c fricativa sibilante. Pùnto = nessuno. È usato come rafforzativo. Pron. ié, ȼiò gustó.

'ie e cost' un zold' evvia

’ÌE, E CÒST’ UN ZÒLD’ EVVIA!


(Si, costa un soldo e via), cioè è troppo caro. È un modo di dire in aretino stretto: in passato, soprattutto nel mondo contadino, la povertà era la regola e occorreva risparmiare su tutto, soprattutto cu ciò che era costoso. ’Íe =  aferesi di sìe = si con e paragogica. Zòld’ = apocope di soldo. La z è dovuta al fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs, sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Evvìa = concrezione di e via con geminazione di v. Pron. ’ié, é kòst’un zòld’évvia!

'ie me lo friggo

’ÍE, ME LO FRÌGGO!


(Si, me lo friggo). Si dice spesso con tono risentito e anche un po’ scocciato quando ci viene offerto qualcosa che assolutamente non vogliamo, quindi è un po’ come dire ‟e che me ne faccio”?  Ie = sìe, forma aferetica e paragogica di si. Pron. ié, mé ló friggó!

in quattro balletti

IN QUÁTTRO BALLÉTTI


(In un tempo brevissimo).  Quàttro  = il numero quattro compare molto spesso nei modi di dire e nei proverbi (fare quattro passi, in quattro e quattr’otto, non dire quattro se non l’hai nel sacco ecc). Forse è dovuto al fatto che i proverbi sono nati in un determinato momento, quindi sono ambientati nel tempo e nello spazio e il numero quattro ricorda le stagioni, o forse perché simboleggia i quattro elementi fondamentali acqua, aria, terra, fuoco. Ballétti = diminutivo di ballo. Pron. in kuattró ballétti.

in un baleno

IN UN BALÉNO


(In un tempo brevissimo).  È come dire in un attimo. Si dice anche in un àmmene. Baléno = lampo. In effetti il lampo è un fenomeno atmosferico che si esaurisce in un tempo brevissimo. Ámmene = amen con geminazione di m ed e paragogica dovuta al fatto che l’aretino non accetta di buon grado le parole straniere soprattutto quando terminano per consonante. Per risolvere il problema o vengono tolte le consonanti finali: phon > fòno o è raddoppiata la consonante finale con l’aggiunta di una e paragogica: bar > bàrre. Pron. in un balénó, in un àmméné.

ir' a galina

ÌR’A GALÌNA

(Andare a gallina, cioè fare la morte della gallina che finisce in pentola, quindi morire). È un modo di dire molto crudo, espresso nell’aretino più stretto, che arriva dal lontano passato. Con lo stesso significato è più usata attualmente la frase ir’a’ ciprissìni. Ír’= apocope di ìre = andare. Galìna = la mancanza di una l si spiega con il fenomeno della degeminazione. Ciprissìni = è una sineddoche, cioè è qui usata una parte per indicare il tutto, infatti i ciprissini sono le piante di cipresso che ornano il cimitero, ed essendo  sempre  verdi, simboleggiano la  vita che  continua. Pron. ir’a galina, a ȼiprissini.

ir' a scatafascio

ÌR’ A SCATAFÀSCIO


(Andare in rovina). Si dice quando tutto va male. Ír’ = infinito apocopato di ìre = andare. Scatafàscio = parola formata da s intensivo e catafàscio = alla lettera in modo disordinato. Pron. ir’a skatafasció.

ire da 'n foss' a 'n greppo

ÌRE DA ’N FÒSS’A ’N GRÉPPO


(Andare da un fosso ad un greppo), è come dire cadere dalla padella nella brace. Si dice di chi, nonostante gli sforzi o per incapa- cità, non riesce ad uscire da una situazione precaria. Íre =  tipico verbo aretino per andare. Delle tre forme ìre, gìre, vìre, ìre è l’unica sopravvissuta. Pron. iré da ’n fòss’a ’n gréppó.

la calcin è bell' e bianca

LA CALCÌN’È BÈLL’E BIÀNCA E VA MÌSSA ’NDÙCCHE, MÀNCA


(La calcina è bella e bianca e va messa dove manca). È il motto dei muratori aretini. Mìssa = tipico participio del verbo mettere (misso) al femminile. L’aretino, per le parole derivanti dal latino, è più conservativo dell’italiano come in questo caso in cui viene mantenuta la i del participio missum: latino missum > italiano messo > aretino mìsso. ’Ndùcche = concrezione di ’ndu e che con geminazione di c. Pron. la kalcin’è bèll’é bianka é va missa ’ndukké manka.

la cas' annisconde ma un rubba

LA CÀS’ ANNISCÓNDE, MA UN RÙBBA


(La casa nasconde, ma non ruba). È un modo di dire, espresso in aretino stretto,  che tutti pronunciano con rassegnazione quando cercano qualcosa e non lo trovano). È un po’ come dire, va bene se non lo trovo ora lo troverò in seguito, tanto è sempre qui. Anniscónde = è la terza persona singolare del presente indicativo del verbo aretino anniscóndere che ha alcune peculiarità veramente interessanti: è uno dei vari verbi aretini che si pronunciano con la a prostetica , ha la geminazione della n e il passaggio della  sillaba  na > ni. Un = tipica negazione aretina per non. Rùbba = la doppia b si spiega con il fenomeno della geminazione, tipico non solo dei verbi, ma anche dei sostantivi. Es: uva > ùvva, popone > poppóne. Pron. la kas’anniskóndé, ma un rubba.

la civerr' è sul zorbo

LA CIVÉTT’È SUL ZÒRBO


(È come dire lupus in fabula). In questo modo di dire cambiano i protagonisti, ma il senso rimane lo stesso. Sul zòrbo = la z di zòrbo si spiega con il fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Pron. la ȼivétt’è sul zòrbó.

lambiccass' el cervello

LAMBICCÀSS’EL CERVÈLLO

(Spremere le meningi), cioè scervellarsi per trovare una soluzione per un problema difficile. Lambiccàsse = nei verbi riflessivi aretini la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rs = ss. Se = in aretino le particelle pronominali  sono mé, té, cé, sé, vé.  El = tipico articolo aretino per il. Pron. lambikkass’él cérvèlló.

lamentasse del tempo bono

LAMENTÀSSE DEL TÈMPO BÓNO


(Lamentarsi del tempo buono). Si usa in senso metaforico. Si dice con tono ironico o di rimprovero di chi non è mai contento. Lamentàsse = formato da lamentàr e se, con assimilazione rs > ss. Il se è dovuto al fatto che in aretino le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé vé. Del = di solito in aretino le preposizioni arti- colate sono pronunciate staccate e degeminate.  Es: della  > de la.  In questo caso la parola è pronunciata attaccata perché la l non è geminata. Bóno = per le parole derivanti dal latino l’aretino e più conservativo dell’italiano: mantiene infatti la o tonica originaria che assume suono chiuso: latino bonus > italiano buono > aretino bóno. Pron. laméntassé dél tèmpó bónó.

lasciar' a sodo

LASCIÁR’ A SÓDO


(Lasciare a sodo), cioè non coltivato. Nel passato, per avere una buona produttività, non si poteva sfruttare il terreno troppo a lungo, anche perché c’era scarsità di concime. Per permettere al terreno di ricostituire i sali minerali, ogni tre anni un apezzamento veniva lasciato incolto e negli terreni si alternavano le colture. Pron. lasciar’ a sódó.

la vanga se chiama chioma

LA VÀNGA SE CHIÀMA CHIÓMA, I VÈCCHI L’AMÀZZA, I GIÓVENI LI DÓMA


(La vanga si chiama chioma, i vecchi li ammazza, i giovani li doma). È un modo di dire in aretino stretto elaborato dal mondo contadino. Nel passato i lavori agricoli erano fatti a mano e richiedevano grande fatica per cui i vecchi erano molto sofferenti, ma anche per i giovani erano un grande dispendio di energie. Se = le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. Chiàma = il gruppo chia ha pronuncia occlusiva postapalatale sorda. Chióma = la parola entra nel modo di dire solo per fare rima con doma. Il gruppo chio ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Vècchi = il gruppo cchi ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Amàzza = tipico fenomeno aretino di degeminazione mm > m. Gióveni = giovani. In aretino la a postonica italiana passa spesso ad e chiusa. Pron. la vanga sé čama čóma, i vèčči l’amazza, i jóvéni li dóma. 

la vecchia malardotta

LA VÈCCHIA MALARDÓTTA QUÁND’È ’L BÙIO PÍGLIA LA RÒCCA

(La vecchia malridotta comincia a filare al buio). Si dice con tono di rimprovero a chi, pur avendo avuto tempo, si riduce a fare le cose all’ultimo momento e, in genere, le fa male. Vècchia = il gruppo cchia ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Malardótta = è costituita dalla forma màl per male e ardótta per ridotta. Ardótta è il participio del verbo aretino ardùrre per ridurre, usato in funzione aggettivale. La ar iniziale si spiega con il fatto che in aretino il prefisso iterativo è ar invece di ri. Es: rifare > arfàre. Quànd’ = apocope di quànde, forma aretina di quando. ’L = forma aferetica dell’artico aretino el per il. Pìglia = pigliàre è sempre preferito a prendere. Ròcca = fuso per filare. Pron. la vèčča malardótta kuand’è ’l buió piglia la ròkka. [Nella scrittura con simboli la i non viene trascritta perché compresa nel suono č].

l'è fatt' aposta

L’È FÁTT’APÓSTA


(Lo hai fatto apposta). Si dice con tono di risentimento e rimpro- vero a chi ci ha arrecato un danno o fatto un torto. È = seconda persona singolare del presente indicativo del verbo avere = hai (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Apòsta = apposta. La mancanza di una p si spiega con il fenomeno della degeminazione. Pron. l’è fatt’apósta. 

le gambe fan ghiego

LE GÀMBE FÀN GHIÉGO


(Le gambe si piegano), per la stanchezza, per lo sforzo o per la paura. La parola chiave del modo di dire è ghiégo che è la diretta trasformazione dell’italiano arcaico piego = piega. Il gruppo ghie ha pronuncia occlusiva postpalatale sonora. Pron. lé gambé fan ĝégó. [Nella scrittura con simboli la i non viene trascritta perché compresa nel suono ĝ].

le pequere se conteno a maggio

LE PÉQUERE SE CÓNTENO A MÀGGIO


(Le pecore si contano a maggio). È un modo di dire in aretino stretto che si usa sempre in senso metaforico. Significa che ogni cosa va fatta al momento opportuno. Il proverbio nasce dal fatto che le pecore vengono solitamente tosate a maggio e in quell’occasione anche si contano. Péquere = tipica parola aretina per pecore. Se = si. In aretino il si passivante viene sempre pronunciato se. Cónteno = contano. In aretino la desinenza della terza persona plurale del presente indicativo della I° coniugazione è èno invece di ano (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Pron. lé pékuéré sé cónténó a maggió.

le prove se fano al prato

LE PRÓVE SE FÀNO AL PRÀTO


(Le prove si fanno al Prato). È la risposta che si dà alla domanda: posso provare? quando non siamo disposti a permetterlo. Il modo di dire ha probabilmente origine nel 1904 quando si corse al Prato della Fortezza Medicea una Giostra del Saracino in onore di F. Petrarca e in quel luogo si tennero anche le prove della manife- stazione. Se = il si passivante in aretino è pronunciato sempre se. Fàno = fanno. La terza persona plurale del presente indicativo della I° coniugazione è ano invece di anno (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Pron. lé próvé sé fanó al Prató.

levasse tre passi da' coglioni

LEVÀSSE TRE PÀSSI DA’ COGLIÓNI

(Allontanarsi tre passi dai testicoli), si usa sia nel senso di allontanarsi, me càvo tre pàssi da’ coglióni, che di essere allontanato càvete tre pàssi da’coglióni. Levàsse = infinito riflessivo per levarsi. La desinenza in asse è dovuta alla assimilazione rs > ss. Il se si deve al fatto che le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. Coglióni = è una sineddoche, cioè si indica una parte del corpo per il corpo intero. Pron. lévassé, mé kavó, kavété tré passi da’ kóglióni. 

liscio com' el piscio

LÌSCIO CÓM’EL PÌSCIO

(Liscio come l’orina). È l’equivalente di liscio come l’olio. Si dice quando tutto va bene, non ci sono intoppi. El = tipico articolo aretino per il. Pìscio = è sempre preferito ad orina. Pron. lisció kóm’él pisció.

lo diss' anco quelo che murì

LO DÌSS’ÀNCO QUÉLO CHE MURÌ: ÉRA LA PRÌMA VÒLTA!


(Lo disse anche quello che morì: era la prima volta)! È un modo di dire in aretino stretto pronunciato quasi sempre in tono ironico o risentito. Quando qualcuno commette un errore o reca un danno involontario si scusa dicendo appunto: è la prima volta! intendendo dire: è una cosa che non mi era mai accaduta! E l’altro seccato replica: lo dìsse ànco quélo che murì! Ánco = tipica congiunzione aretina per anche. Quélo = quello. In aretino si pronuncia con la l degeminata. Murì = morì. È la forma aretina della terza persona singolare del passato remoto del verbo murìre (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Pron. ló diss’ankó kuéló ké murì: éra la prima vòlta! 

l'orto vol l'omo morto

L’ÒRTO VÓL’ L’ÓMO MÒRTO

(L’orto vuole l’uomo morto), cioè l’orto esige lavoro a tempo pieno. Non basta infatti mettere a dimora le varie piantine, occorre annaffiarle, concimarle, zapparle per dare aria al terreno e togliere le erbe infestanti, mettere i tutori, dare il ramato. Oggi è tornato di moda fare l’orto, soprattutto da parte dei pensionati che così uniscono l’utile al dilettevole, ma una volta era una necessità. Era una sorta di dispensa a cielo aperto dove la massaia si recava giornalmente per cogliere i prodotti utili alla preparazione del cibo per tutta la famiglia. Vol’ = vuole, apocope di vóle (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Ómo = uomo. Per le parole derivanti dal latino l’aretino è più conservativo dell’italiano: mantiene infatti la o tonica originaria che assume suono chiuso: latino  homo > italiano  uomo > aretino  ómo. Pron. l’òrtó  vól’ l’ómó mòrtó.

lungo lungo coglion coglione

LÙNGO LÙNGO, COGLIÓN’ COGLIÓNE


(È tanto alto quanto è fesso). Si dice di persona semplice, mite, bonaria o di chi è proprio tonto. La caratteristica del modo di dire è la ripetizione delle parole volte a rimarcare il concetto. Coglióne = in aretino ha vari significati a seconda del contesto in cui è inserito. Qui è usato nel senso più diffuso, cioè fesso. Pron. lungó lungó, kóglión’ kóglióné.

ma ce ve a cacar' al prato

MA CE VÈ A CACÁR’AL PRÁTO E LA CÁRT’A GIÓVI


(Ma vai a defecare al Prato e la carta per pulirti vai a prenderla a Giovi). Si dice con tono di risentimento e di rimprovero a chi ci infastidisce. Il Prato è naturalmente quello della Fortezza Medicea di Arezzo. Giovi è una frazione poco distante dalla città. Ce = ci. Analogamente alle particelle prononinali anche gli avverbi di luogo vi e ci in aretino sono sempre pronunciati ve e ce. Vè è la seconda persona singolare del presente indicativo del verbo ìre = vai (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Cacàr = è l’infinito apocopato del verbo cacàre che è sempre preferito nell’uso all’italiano defecare. La ó di Giovi  ha suono chiuso. Pron. ma ȼé vè a kakar’al Prató é la kart’a Jóvi.

ma ce ve a fa ddu' casce

MA CE VÈ A FA DDU’ CÀSCE!


È un modo di dire più blando per non dire ma ci vai a prenderlo in culo. Si dice a chiunque ci infastidisce o ci importuna. Ce = ci. In aretino l’avverbio di luogo ci si pronuncia sempre ce. = seconda persona singolare del presente indicativo del verbo ìre = vai (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). = infinito breve di fàr. [D]du = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rd > dd. Du’ = forma apocopata di dùa = due. Càsce = plurale di càscia, forma aretina per acacia. Pron. ma ȼé vè a fa ddu’ kascé.

ma ce ve più lla

MA CE VÈ PIU LLÁ

(Ma ci vai più in là). Si dice con tono di fastidio o di insofferenza rivolgendosi a persone che ci infastidiscono o delle quali comunque non gradiamo la presenza. Ce è un avverbio di luogo corrispondente all’italiano ci. Analogamente alle particelle pronominali, anche gli avverbi di luogo ci e vi in aretino si trasformano sempre in ce, ve. Più llà è la crasi di più in là dove il gruppo nl ha subito una assimilazione consonantica nl > ll. Pron. ma ȼé vè piu lla.

ma che fe, alò sta bunino

MA CHE FÈ, ALÒ STA BUNÍNO


(Ma che fai, su stati fermo)!  Si dice con tono risentito e di rimprovero a chi non ha le capacità per fare una cosa o la fa in modo maldestro. è la seconda persona singolare del presente indicativo del verbo fère. L’uscita in è invece di ai è tipica delle seconde persone singolari del presente indicativo dei verbi aretini (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore).  Alò è la più usata parola aretina (trasformazione del francese allons = andiamo). In questo caso è usata come esortazione e comando. Bunìno è il diminutivo dell’aretino  bóno. Il passaggio o > u,  soprattutto tipico dei diminutivi, si spiega con il fenomeno dell’armonia vocalica. Pron. ma ké fè, ma sta buninó.

ma chi te caca?

MA CHI TE CÁCA?


(Ma chi ti considera?)  Si dice rivolto a persone di cui non ci interessa proprio niente, delle quali non abbiamo la minima considerazione. Te è una particella pronominale. Le particelle pronominali mi, ti, ci, si, vi in aretino si trasformano sempre in mé, té, cé, sé,vé. Càca è la terza persona singolare del presente indicativo del verbo cacàre che qui assume il significato di considerare, nel senso che la persona è considerata meno delle feci che si espellono dal sedere. Pron. ma ki té kaka?

madonna pulita

MADÒNNA PULÌTA!

È un’imprecazione bonaria per non dire di peggio. Gli aretini, soprattutto nel passato, erano soliti intercalare qualunque discorso con bestemmie più o meno colorite. Oggi questa abitudine si è un po’ persa e molte bestemmie sono sostituite nell’intercalare del discorso da alò. Pron. Madònna pulita.

madonna santa trentanove e un quaranta

MADÒNNA SÀNTA TRENTANÒVE E UN QUARÀNTA


Si dice quando siamo spazientiti per una lunga attesa. Il modo di dire nasce dalla festa della Candellora, detta anche della purificazione di Maria, perché nel mondo ebraico la donna che aveva partorito un maschio era considerata immonda per un periodo di 40 giorni e non poteva accostarsi alle cose sacre. Si legge infatti nel Levitico (12-2-4): ‟quando la donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per 7 giorni (...) poi essa resterà ancora 33 giorni a purificarsi del suo sangue, non toccherà alcuna cosa sacra e non entrerà nel santuario, finché non saranno trascorsi i giorni della purificazione.” Pron. Madònna santa tréntanòvé é un kuaranta.

ma figurte te

MA FIGÙRTE TE!         


(Ma figurati tu)! Si dice in genere quando ci rivelano notizie delicate o un segreto con la raccomandazione di non divulgarlo o quando parliamo di cose che proprio non ci toccano e in questo caso è come dire ma figurati cosa me ne importa. Figùrte = Forma sincopata di figurati con suffissa la particella pronominale te. In aretino infatti le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé, vé. Pron. ma figurté té.

ma me dichi 'n du ve

MA ME DÍCHI ‘NDÚ VE, SI GNA VI DDA LU’?

(Ma mi dici dove vai se bisogna andare da lui?).  È una frase, quasi uno scioglilingua, espressa nell’aretino tipico del secondo dopoguerra. Me = le particelle pronominali mi, ti, ci, si, vi, in aretino sono sostituite da mé, té, cé, sé, vé, fenomeno questo ancora oggi persistente. Dìchi è la seconda persona singolare del presente indicativo del verbo dire. Oggi la voce dialettale tende ad essere sostituita da quella italiana dici (per approfondimenti puoi consultare  I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). ’Ndù è la forma aferetica  di in dóve, trasformato in du forse per influenza della pronuncia u dell’avverbio francese ou = dove. I Francesi infatti hanno stazionato nell’aretino dal 1796 sino al 1815 ed hanno lasciato nel nostro dialetto numerose parole. La congiunzione condizionale se in aretino si pronuncia sempre si, e nella successione se-si, si ha sempre l’inversione si- se. Gna è la forma aferetica della terza persona del presente indicativo bisogna. Vì= infinito breve di vìr. [D]da = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue, rd > dd.  Lu’ è la forma apocopata di  lùi. Lo stesso avviene con léi  =  . Pron. ma mé diki ndù vè, si gna vi dda lu? 

mandar' i piedi a le botteghe

MANDÀR’I PIÉD’A LE BOTTÉGHE


(Mandare i piedi alle botteghe), cioè camminare con le punte dei piedi molto divaricate. Quando si cammina per la strada le botteghe si trovano sia a destra che a sinistra: chi cammina a piedi divaricati sembra che indichi con l’angolazione dei piedi proprio i negozi. Bottéga = termine generico, derivato dal greco apoteche = granaio, che indica tutti i tipi di negozio. Pron. mandar’i piéd’a lé bóttéghé.

mangiar' a ufo

MANGIAR’A UFO


Cioè a sbafo, sulle spalle di qualcuno, senza spendere niente. Úfo = ci sono varie ipotesi sull’origine della parola: quella che sembra più probabile è che venga dalla sigla A.U.F. cioè ad usum fabricae (per la costruzione della città),  poiché nel diritto romano i materiali occorrenti alla costruzione di una città erano esenti da imposte. Pron. mangiar’ a ufó.

mangiare quante 'n tribunale

MANGIÀRE QUÀNTE ’N TRIBUNÀLE


(Mangiare quanto un tribunale), cioè in modo esagerato. Il modo di dire nasce dal fatto che in ogni causa che si sostiene in tribunale si devono sostenere molte spese e occorre essere assistiti da un avvocato che esige un pesante onorario. Si usa sia in senso concreto, per indicare chi ha una fame insanabile e, in senso metaforico, ci si riferisce quasi sempre ai politici che hanno lauti stipendi e, non contenti, rubano a man bassa. Quànte = tipico avverbio e aggettivo aretino per quanto. Mentre in italiano esistono le forme maschile, femminile, plurale, l’aretino preferisce usare la forma neutra in tutti i casi. ’N = aferesi di un. Pron. mangiàré kuanté ’n tribunalé.

ma perdavero?

MA PERDAVÉRO?


(Ma veramente)? È la domanda che ci si pone con stupore e meraviglia ogni volta che ci viene raccontato qualcosa di poco credi- bile. Perdavéro = parola composta da per e davvero. La mancanza di una v si spiega con il fenomeno della degeminazione. Pron. ma pérdavéró?

maremma sul ciuco

MARÉMMA SUL CIÙCO

È una sorta di imprecazione bonaria per non dire di peggio. Marémma = è un eufemismo per Madonna. Ciùco = somaro, asino. Deriva dal latino cicur = mansueto, bonario, come è il carattere di questo animale. Pron. marémma sul ciukó.

ma se parecchio te chi se la bevve

MA SÉ PARÉCCHIO TE CHI SE LA BÉVVE!

(Non sai assolutamente come stanno le cose). La frase, detta con tono di fastidio e rimprovero, è rivolta a chi vuol dare consigli senza cognizione di causa. =  seconda  persona singolare del presente indicativo del verbo sapere (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Te = in aretino si usa anche come pronome personale soggetto = tu. Parécchio = il gruppo cchio ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Chi = ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Pron. ma sè paréččó té či sé la bévvé! 

ma te ci en mei mando

MA TE CI ÈN’ MÈI MÁNDO?


 (Ma ti ci hanno mandato mai?) cioè a quel paese. È un modo di dire espresso nell’aretino più schietto. È la frase che si rivolge a qualcuno da cui siamo infastiditi. Te = le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. Èn’ è la forma apocopata di hanno. La è si spiega con il fatto che nell’aretino stretto la a tonica italiana è sempre pronunciata e aperta. Es: mai > mèi. Ha la stessa spiegazine di Èn. Pron. ma tè ȼ’ièn mèi mandó?

ma va cacar' e dacce 'n morzo

MA VA CACÀR’E DÀCCE ’M MÒRZO


(Ma vai a defecare e dacci un morso)! Si dice con tono stizzoso e risentito a chi ci infastidisce. Va cacàre = la mancanza della preposizione a si deve al fatto che in aretino con i verbi di movi- mento quasi sempre si omette. Dàcc’ = apocope di dàcce = dacci. Il ce finale è dovuto al fatto che in aretino l’avverbio di luogo italiano ci è sempre pronunciato ce. ’M = aferesi di un con assimilazione nm > mm. Mòrzo = morso. La z si spiega con il fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs sono sempre pronunciati lz, nz, rz.  Pron. ma va kakar’é daccé ’m mòrzó.

ma va fa ll' erb' al treno

MA VA FA LL’ÈRB’AL TRÉNO

(Ma vai a fare l’erba al treno). Si dice con tono spazientito o risentito a chi ci infastidisce. È una variante di ma vai a quel paese, un’espressione blanda per non dire di peggio. = infinito breve di  fàr. [L]l’ = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. Pron. ma va fa ll’èrb’al trénó.


ma va lett' e fascet' i piedi

MA VA’ LÈTT’E FÀSCET’I PIÉDI!


(Ma vai a letto e fasciati i piedi). Si usa in varie circostanze: si dice a chi ci infastidisce con i suoi discorsi insulsi, a chi ha un comportamento sgradito, a chi racconta balle. Va lètt’ = va a letto.  La mancanza della preposizione a è dovuta al fatto che in aretino spesso si omette con i verbi di movimento. Fàscet’ = fasciati. Quando l’imperativo ha suffisso un pronome o una particella pronominale la a della desinenza passa in aretino ad e chiusa. Es: amalo > amèlo. Non è chiaro il motivo per cui ci si devono fasciare i piedi, tanto più che è un’usanza tipicamente cinese e riservata alle donne, forse perché i piedi fasciati stretti fanno male? Pron. ma va lètt’é fascét’i piédi!

ma va llae

MA VA LLÀE!


(Ma vai la) cioè vattene perché mi infastidisci. È un frase molto usata soprattutto in occasione di discussioni animate o liti. Va = imperativo di andare. Llàe = la prima l sta al posto di una n. Infatti la frase originaria era ma va in lae, poi, per una pronuncia più agevole, si è avuta l’assimilazione nl > ll con sincope della i.  La e finale si deve al fenomeno tipico del dialetto aretino della paragoge. Pron. ma va più llaé.

ma va pigliallo 'n culo

MA VA PIGLIÁLLO ’N CÚLO E DÓPPO DI CHE SÈ CADÚTO ’N UN PÁLO

(Ma vai a prenderlo nel di dietro e dopo dì che sei caduto su un palo). È una frase molto colorita espressa in aretino stretto che si usa per liberarci di chi ci importuna. Pigliàllo = prenderlo. In aretino pigliàre è sempre preferito a prendere. È l’infinito breve di pigliàr con suffisso il pronome lo. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. ’N = forma aferetica di in per evitare lo iato. Cùlo = anche se è ritenuto un termine volgare, è sempre preferito a sedere. Dóppo = dopo. Le due p si spiegano con il fenomeno della geminazione. = seconda persona singolare del presente indicativo di essere = sei (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). ’N un = in un. Pron. ma va piglialló ’n kuló é dóppó dì ké sè kaduto ’n un paló.

m' è da di cche vu

M’È DA DI CCHE VU’!


(Mi devi dire cosa vuoi!)  È una frase che si dice quasi sempre con tono risentito a chi ci importuna. M’ è la forma apocopata di me = mi. Le particelle pronominali mi, ti, ci, si, vi in aretino si trasformano in mé, té, cé, sé, vé. È = seconda persona singolare dell’indicativo presente del verbo avere = hai. Di è la forma breve dell’infinito del verbo dire. [C]che = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rc >cc. Vu’ è la forma apocopata della seconda persona singolare del presente indicativo del verbo volere = vuoi (per approfondimenti puoi consulare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Pron. m’è da di kké vu’.

me fa specie

ME FA SPÈCIE


(Mi fa meraviglia, mi stupisce). Si dice quando ci viene raccontato qualcosa di poco credibile o di molto strano. Me = mi. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. Spècie = meraviglia, stupore. Il senso al modo di dire è dato dal significato latino della parola species che significa immagine, cioè quello che si vede e che quindi può suscitare le più diverse sensazioni nell’osservatore. Pron. mé fa spèȼé.

meglio mette lle man' avanti

MÈGLIO MÉTTE LLE MÀN’ AVÀNTI, DÌSSE QUÉLO CHE CADÌV’ A BOCCÓNI


(Meglio mettere le mani avanti, disse quello che cadeva a pancia in giù). Si dice ogni volta che la situazione non è chiara per cui è meglio usare cautela per evitare eventuali pericoli. Métte = infinito breve di métter. [L]le = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. Màn’ = forma apocopata per màne. L’aretino non tollera incertezza di genere per cui sostituisce la desinenza ambigua con un’altra pià adatta a far riconoscere il genere. Poiché mano è femminile, viene sostituita la desinenza in o che è tipica del maschile con quella in a tipicamente femminile. Mano > màna, plurale mani > màne. Quélo = quello. In aretino esiste solo la forma degeminata. Cadìva = cadeva. È tipico dell’aretino sostituire la desinenza eva dell’imperfetto indicativo italiano della seconda coniugazione con  iva (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Boccóni = a pancia in giù. Pron. mèglió métté llé man’avanti, dissé kuéló ké kadiv’a bókkóni.

meglio palaia

MÈGLIO PALÁIA


La locuzione si usa per indicare difficoltà o disagio, è un po’ come dire: ma perché non ce ne andiamo da un’altra parte invece di stare qui a tribolare? Palàia  = è difficile capire quale sia l’esatto significato della parola, forse indica un bosco per fare pali o forse si riferisce all’omonima località pisana. Pron. mèglió palaia.

me pari bobo schifo

ME PÀRI BÓBO SCHÌFO


(Mi sembri proprio ridotto male, tanto da fare schifo). Si dice di chiunque si trovi in condizioni fisiche precarie, a tal punto da essere quasi irriconoscibile nell’aspetto. Me = particella pronominale per mi. In aretino le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé, vé. Pàri = in aretino il verbo parére è preferito a sembrare. Bóbo schìfo =  la parola bòbo in aretino significa orco oppure indica qualunque insetto, spesso dall’aspetto repellente, di cui non si conosce il nome. Schìfo è qui usato come rafforzativo. Il gruppo chi ha suono occlusivo postpalatale sordo. Pron. mé pari bóbó sčifó. 

me pari el por' asciugamano

MÉ PÀRI ÉL PÓR’ASCIUGAMÀNO


(Mi sembri il povero asciugamano). La frase è rivolta a chi per incidente, malattia, o altri motivi, si trova in condizioni precarie. Me = mi. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. Pàri = in aretino si preferisce usare parére invece che sembrare. El = tipico articolo aretino per il. Pór’ = poro, forma sincopata di povero. Di solito questo aggettivo si usa per indicare chi si trova in condizioni critiche o è addirittura morto. Asciugamàno = è un oggetto che, per l’uso continuo, si sporca e si deteriora facilmente e rende bene l’idea della precarietà. Pron. mé pari él pór’ asciugamanó.

me rimane sul cazzo

ME RIMÀNE SUL CÀZZO!

(Mi rimane antipatico, mi è insopportabile). È un modo di dire ritenuto volgare, ma molto usato perché colorito ed efficace, accompagnato quasi sempre da un gesto di stizza simboleggiato dalle braccia che vengono protese in avanti con le mani strette a pugno che si aprono velocemente. Me =  particella pronominale per mi. In aretino le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé, vé. Càzzo = è sempre preferito a pene. Esistono anche espressioni simili come stàre sul càzzo, su’ coglióni, su le pàlle. Pron. mé rimané sul kazzó! Staré sul kazzó, su’ koglióni, su lé pallé.

me sa mill'anni

ME SA MILL’ÁNNI


(Non vedo l’ora che). Si usa ogni qualvolta ci si augura che un fatto o un desiderio si avverino in breve tempo. Me = mi. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé invece di mi, ti, ci, si, vi. Pron. mé sa mill’anni.

me sta bene a le mane

ME STÀ BÉN’A LE MÀNE

(Mi sta bene alle mani) , cioè va bene, sono soddisfatto, contento. Si dice di solito quando, dopo proposte o fatti non convincenti, finalmente otteniamo ciò che desideravamo. Me = mi. In aretino le particelle pronominali sono sempre pronunciate mé, té, cé, sé, vé. Màne = mani. L’aretino non ammette incertezza di genere perciò sostituisce la desinenza ambigua con un’altra più adatta a far riconoscere il genere. La desinenza in o è tipica del maschile, quindi viene sostituita con a che è la normale desinenza femminile: mano > màna, plurale mani > màne. Lo stesso avviene per le parole italiane terminanti in e: felce > félcia, falce > fàlcia Pron. mé sta bbén’a lé mané.

mettecese de buzzo bono

MÉTTECESE DE BÙZZO BÓNO

(Impegnarsi al massimo). La frase si usa quando siamo in difficoltà e occorre usare tutte le nostre forze e la nostra intelligenza per risolvere la situazione. Méttecese = mettercisi. La parola è formata da tre parti: mette è l’infinito breve di métter con caduta della r, ce avverbio di luogo per ci, se tipica particella pronominale aretina per si. De preposizione semplice per l’italiano di. Bùzzo = pancia. Bóno = la mancanza del dittongo uo della voce italiana si spiega con il fatto che, per le voci derivanti dal latino, l’aretino è più conservativo dell’ italiano. Infatti, mentre in italiano la o latina dà come esito uo, in aretino si mantiene la o che assume suono chiuso: lat. tonitrus > italiano tuono, aretino > tóno. Pron. méttéȼésé dé buʑʑó bónó.


mettelo 'n tasca

MÉTTELO ’N TÀSCA


(Metterlo in tasca), cioè dare una fregatura. È un modo di dire piuttosto blando che si usa per non dire frasi più sconvenienti, come per esempio méttelo ’n cùlo. Méttelo = metterlo. Quando l’infinito ha suffisso un pronome, in aretino la r o si elide o si gemina  assimilandosi alla consonante che immediatmente segue: metterlo > méttelo, farlo > fàllo. Pron. méttéló ’n taska, ’n kuló.

mettese a ghiacere

MÉTTESE A GHIACÉRE


(Sdraiarsi). È un modo di dire in aretino stretto che si usa per animali e persone. Méttese = infinito breve e sincopato di mettersi. In aretino le particelle pronominali sono mé, té, sé, cé, vé. Ghiacére = è un vocabolo tipicamente aretino, ma ha un’origine nobile essendo la trasformazione del latino iacĕre = stare sdraiato. Il gruppo ghia ha pronuncia occlusiva postpalatale sonora. Pron. méttésé a ĝaȼéré. [Nella scritture con simboli la i non viene trascritta perché già compresa nel suono ĝ].

mi, scapp' el zole

MI’, SCÀPP’EL ZÓLE

(Guarda, esce il sole). Si dice con senso di meraviglia o di compiacimento quando il sole sale dal monte o esce dalle nuvole che l’avevano momentaneamente coperto. Mi’ = forma apocopata per mìra, cioè guarda. Il verbo miràre per guardare era molto usato nell’aretino del secondo dopoguerra, oggi sostituito del tutto dalla parola italiana. Scàppa = in aretino stretto è sempre usato nel significato di uscire fuori. El = tipico articolo aretino per il. Zóle = sole. La z si spiega con il fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs, sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Pron. mi’, skapp’él zólé.

montare 'n buggiulucco

MONTÀRE ’N BUGGIULÙCCO


(Salire sulle spalle, come dire in santaluna). Era un modo di dire molto in uso nel passato. Si riferiva soprattutto ai bambini che, quando erano stanchi di camminare, venivano montati sulle spalle quasi sempre dal padre. Buggiulùcco = è una parola dialettale, ma di origine dotta, provenendo dal latino baiulus = che porta, che sorregge, con il suffisso ucco. Pron. montaré ’n buggiulukkó.

da montelupo se vede capraia

DA MONTELÙPO SE VÉDE CAPRÀIA, CRÌSTO FA (I) CRISCHIÀNI EPPÙ L’APÀIA


(Da Montelupo si vede Capraia, Cristo fa le persone e poi le appaia). Si dice in genere di persone che stanno così bene insieme da far supporre che la loro unione sia stata predestinata. Se = si. In aretino il si impersonale si trova sempre nella forma se. Fa (i) crischiàni =  la i non è pronunciata. Crischiàni = è usato nel senso generico di persone. Il gruppo chia ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Eppù = concrezione di e poi. Quando pòi è preceduto da e, in aretino si ha sempre la geminazione della p e poi è pronunciato pu. Apàia = appaia. La mancanza di una p è dovuta al fenomeno della degeminazione. Pron. da Móntélupó sé védé Kapraia, Kristó fa krisčani éppù l’apaia. [Nella scrittura con simboli la i non viene trascritta perché compresa nel suono č].

mortus este, spent' i lumi

MÒRTUS ÈSTE, SPÉNT’ I LÙMI, PÀSSA L’ÀCQUA SÓTT’I FIÙMI

(È morto, ha  chiuso gli occhi, l’acqua  continua a  scorrere sui fiumi). È un misto di aretino e latino aretinizzato. Si dice in occasione di un decesso a significare che il morto è morto, ma la vita continua per i vivi. Mòrtus èste = mortus est, cioè è morto. Èste = l’aretino non ammette parole che terminano per consonante, perciò, quando entrano parole straniere che terminano per consonante, vengono modificate o togliendo la consonate o le conso- nanti finali o aggiungendo una vocale  paragogica, di solito una o o una e e i  questo caso si raddoppia la consonante finale. Es: naylon > nàilo, phon > fòno, gas > gàsse. Lùmi = è sempre preferito a luci. Sótt’i = concrezione di sotto ai. Pron mòrtus èsté, spént’i lumi, passa l’akkua sótt’i fiumi.