sabato 8 ottobre 2016

alò facemoce 'n crocione

ALÒ, FACÉMOCE ’N CROCIÓNE

È come dire mettiamoci una pietra sopra, dimentichiamo tutto. La frase si usa di solito dopo un diverbio, una lite, un malinteso con lo scopo di pacificare i contendenti e fare come se niente fosse accaduto. Alò = è la parola più diffusa e più usata nell’aretino derivata dal francese allons = andiamo, qui  usata come forma di esortazione, con il significato di su, via. Facémoce = facciamoci,  è un congiuntivo esortativo del verbo fare che ha una coniugazione propria (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). La ce finale di facémoce è una particella pronominale. In aretino le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé, vé.’N = forma aferetica dell’articolo un. Crocióne = accrescitivo di croce volto al maschile.  Pron. alòé, faȼémóȼé ’n króȼióné.

alò, facemo 'na cusina de giorno

ALÒ, FACÉMO ’NA CUSÌNA DE GIÓRNO


(Su, facciamo una cosina di giorno). È una frase espressa in aretino stretto. Si dice spesso, con tono spazientito, rivolgendosi a qualcuno invitandolo a fare presto. Alò = è derivato dal francese allons = andiamo, ma qui usato come esortazione con il significa- to di su, via. Facémo = è la prima persona plurale dell’imperativo aretino del verbo fare (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Cusìna = è il diminutivo di cosa che, come in italiano, sostituisce tutte le parole. La u al posto della o italiana si spiega con il fatto che in aretino la o protonica italiana passa spesso ad u. Es: ortica > urtìca. De = tipica preposizione aretina per di. Pron. alò, faȼémó ’na kusina dé jórnó.

al tempo de' maiali eron zuspiri

AL TÈMPO DE’ MAIÀLI ÈRON’ ZUSPÌRI


(Al tempo dei maiali erano sospiri). È un misto di aretino antico e attuale. La frase è rivolta con tono di rimprovero a persone molto maleducate che scorreggiano o ruttano in presenza altrui. È un proverbio nato nel passato quando l’ignoranza era dilagante e l’educazione spesso latitante, ma ancora oggi non si scherza. Èron’ = forma apocopata di èrono = erano. In aretino la terza persona plurale dell’imperfetto indicativo è èrono o èreno (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Zuspìri = sospiri. La z si spiega con il fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs, sono sempre pronunciati lz, nz, rz. La u è dovuta al fatto che la o protonica italiana in aretino passa spesso ad u. Es: oliva > ulìva. Pron. al tèmpó dé’ maiali èrón’ zuspiri.

a l' ucello 'ngordo gni crepò 'l gozzo

A L’UCÈLLO ’NGÓRDO GNI CREPÒ ’L GÓZZO


(A l’uccello ingordo crepò il gozzo). Si usa in senso metaforico: è un  po’ come dire chi troppo vuole nulla stringe. Ucèllo = la mancanza di una c è dovuta al fenomeno della degeminazione. Gni = gli. In aretino si usa normalmente il doppio complemento di termine. Gni traduce le forme italiane usate come complemento di termine gli, le, a lui, a lei, loro. ’L = aferesi di el tipico articolo aretino per il. Pron. a l’uȼèlló ’ngórdó gni crépò ’l gózzó.

a lume de naso

A LÚME DE NÁSO

È come dire a occhio e croce. È un modo di dire che era già in uso nel mondo latino ‟lumine nasus”. Si dice quando non abbiamo elementi certi che ci permettono di valutare oggettivamente la situazione. Lùme = è sempre preferito a luce. De = tipica preposizione aretina per di. Pron. a lumé dé nasó.

alzar' un polvarone

ALZÀR’UN POLVÀRONE


(Alzare un polverone). Si dice quando, anche per un nonnulla, si fanno inutili polemiche creando confusione e disorientamento. Polvaróne = accrescitivo di polvere. Pron. alzar’un pólvaróné.

andare sul pallone

ANDÀRE SUL PALLÓNE


(Andare in confusione, non avere le idee chiare). È un modo di dire in aretino attuale. Sembra che il modo di dire sia nato nel mondo giovanile e che poi si sia diffuso anche tra gli adulti. Pron. andaré sul pallóné.

andassene a la zitta

ANDÀSSENE A LA ZÌTTA


(Andarsene alla chetichella). Sostituisce l’aretino stretto vìssene a la zìtta. Andàssene = andarsene. Quando l’infinito è riflessivo in aretino si ha sempre l’assimilazione rs > ss. A la zìtta = in modo silenzioso. È una locuzione avverbiale rifatta sul maschile zitto. Vìssene = è la concrezione di virsene con assimilazione rs > ss. Pron. andasséné, visséné a la zitta. 

a occhi' un ze fa manc' a cazzotti

A ÒCCHI’UN ZE FA MÀNC’A CAZZÒTTI!

(A occhio non si fa nemmeno a pugni). È un modo di dire che si usa in senso metaforico. Vuol dire che ogni cosa va ponderata bene, fatta secondo le regole e con gli strumenti giusti.  Un = tipica negazione aretina per non. Ze = si. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. La z è dovuta al fatto che i gruppi ls, ns, rs in aretino sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Mànco = nemmeno. Cazzòtti = pugni. Il significato di pugno deriva dal fatto che la parola è la sincope di ca[pe]zzotto = colpo sul capo, derivato dal latino caput = capo, attraverso una forma *capitum. Pron. a òččó un zé fa mank’a kazzòtti.

appena volto 'l culo

APPÉNA VÒLTO ’L CÚLO

(Appena voltatosi per andarsene). Si usa di solito quando una persona che ha il comando o comunque importante se ne va (capo famiglia, datore di lavoro, insegnante) e chi rimane ne approfitta per fare il proprio comodo. Vòlto = participio breve del verbo volgere = voltato. ’L =  forma aferetica di el, tipico articolo aretino per  il. Cùlo = è sempre preferito nell’uso a sedere. Pron. appéna vòltó ’l kuló.

arabbiato

ARABBIÀTO

(Arrabbiato). Si usa, oltre che nel normale significato di irato, soprattuto per rafforzare un concetto, nel senso di eccessivo: è ’n càld’arabbiàto = è un caldo eccessivo, è salàt’arabbiàto = è eccessivamente salato, è fòrt’ arabbiàto = è eccessivamente forte. Pron. è ’n kald’arabbiató, è salat’arabbiató, è fòrt’arabbiató.

aria rossa o piscia o soffia

ÀRIA RÓSSA, O PÌSCIA O SÓFFIA

(Aria rossa, o piove o tira il vento). Il proverbio si riferisce al tramonto: se l’aria si colora di rosso, secondo la credenza popolare,  è probabile che il giorno dopo, o piova o tiri il vento. Si dice che i proverbi siano la saggezza popolare, ma a volte sono contraddittori. Esiste infatti anche l’altro proverbio molto diffuso rósso de séra bèl tèmpo se spèra. Pìscia = piove: è un’antropomorfizzazione. Pron. aria róssa, ó piscia ó sóffia, róssó dé séra, bèl tèmpó sé spèra.

arivar' a buco

ARIVÀR’ A BÙCO


(Arrivare appena in tempo). Si dice ogni volta che si arriva all’ultimo momento, ma comunque in tempo. Arivar’ = infinito apocopato per arrivare. La mancanza di una r si spiega con il fenomeno tipico del dialetto aretino della degeminazione.  Bùco = è qui usato nel senso di tempo. Pron. arivar’ a bukó.

arivar' a la porta co' sassi

ARIVÀR’ A LA PÒRTA CO’ SÀSSI

Arrivare alla porta con i sassi). Si usa in senso metaforico. Significa arrivare ad un punto dove risulta impossibile procedere. Non si sa esattamente quale sia l’origine del modo di dire, ma tutti concordano sul fatto che sia legato alla Firenze medioevale. Nelle città medioevali i grossi portoni di accesso venivano chiusi ad una certa ora della notte e, per renderli più sicuri, venivano collocati alcuni pesanti massi alla base, per cui i ritardatari non avevano più accesso alla città. Secondo un’altra versione, quando le porte erano state chiuse, i ritardatari lanciavano sassi sulle medesime per farsi notare e farsi aprire dalle  guardie. C’è anche un’altra versione secondo la quale erano le guardie che stavano sugli spalti a gettare sassi sui ritardatari che urlavano per farsi aprire. Arivàr’ = infinito apocopato per arrivare. La mancanza di una r è dovuta al fenomeno della degeminazione . Co’ = apocope di con i. Pron. arivar’ a la pòrta kó’ sassi.


arivare primo doppo tutti

ARIVÀRE PRÌMO DÓPPO TÙTTI

(Arrivare ultimo). La frase è sempre pronunciata in senso ironico per ridicolizzare chi arriva ultimo e si guadagna la ‟medàglia de pàmpeno”.  Arivàre = arrivare. La mancanza di una r è dovuta al fenomeno della degeminazione. Dóppo = dopo con p che è sempre pronunciata geminata.  Pàmpeno = pampino, foglia della vite, quindi una medaglia di nessun valore. Pron. arivaré primó dóppó tutti.


ariver' a pen cotto e vin' atento

ARIVÈR’A PÈN’ CÒTTO E VÍN’ATÉNTO


(Arrivare a pane cotto e vino attinto). È un modo di dire in aretino stretto che si usa in senso metaforico. Significa arrivare quando tutto è già stato fatto, quindi il nostro intervento è tardivo e del tutto superfluo.  Arivèr = infinito apocopato di arivère. La mancanza di una r si spiega con il fenomeno della degeminazione. La desinenza ère invece di are è dovuta al fatto che in aretino stretto la a tonica italiana passa sempre ad e aperta. Es: fame > fème. Lo stesso avviene per la parola pèn’ = forma apocopata di pène. Aténto = attinto. La mancanza di una t si deve al fenomeno della degeminazione. La e in sostituzione della i italiana è dovuta alla forma particolare aretina del participio di atìngere (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Pron. arivèr’ a pèn’ kòttó  é vin’ aténtó. 

arivere 'ndu 'l pen se coce

ARIVÈRE ’NDÙ ’L PÈN SE CÓCE


(Arrivare dove il pane si cuoce). Si usa in senso metaforico. È l’equivalente di arrivare alla porta coi sassi, cioè ad un punto in cui non è più possibile procedere. È un modo di dire in aretino stretto. Arivère = arrivare. La mancanaza di una r si deve al fenomeno della degeminazione. La desinenza in ère  invece di are è tipica dell’aretino stretto. ’Ndù = aferesi e concrezione di in du, tipica forma aretina per dove. ’L = aferesi di el, tipico articolo  aretino per il.  Pèn = pane. In aretino stretto la a tonica italiana passa sempre ad e aperta. Es: fame > fème. Oggi il fenomeno, a causa della scolarizzazione e della pubblicità alla lingua italiana dei mezzi di comunicazione di massa, è del tutto scomparso. Se = il si passivante italiano in aretino è sempre pronunciato se. Cóce = cuoce. Per le parole derivanti dal latino l’aretino è più conservativo dell’italiano, mantiene infatti la o tonica originaria che assume suono chiuso: latino coquere > italiano cuocere > aretino cócere. Pron. arivèré ’ndù ’l pèn sé kóȼé, kóȼéré.

armanecce secco

ARMANÈCCE SÈCCO


(Rimanere morto).  Si dice, di solito, come esito di un incidente: c’è armàsto sècco! cioè è morto sul colpo. Armanécce = rimanerci, formato da armanér e ce. Il prefisso iterativo in aretino è ar invece di ri. L’avverbio di luogo italiano ci in aretino si pronuncia sempre ce. Lo stesso avviene per le particelle pronominali che si pronunciano sempre mé, té, cé, sé, vé. Nella desinenza dell’infinito écce si è avuta l’assimilazione rc > cc. Pron. armanéccé sékkó.

armaner' a mezza montata

ARMANÉR’ A MÈZZA MONTÀTA

(Rimanere a mezza montata), cioè non riuscire a concludere, soprattutto l’atto sessuale. Il modo di dire deriva dal linguaggio cu- linario dove a volte non si riesce a montare, cioè a far crescere il volume del cibo che stiamo preparando. Armanére = rimanere. In aretino  il prefisso  iterativo è ar. Pron. armanér’ a mèʑʑa móntata.

armangiass' el cacio vinto

ARMANGIÀSS’EL CÀCIO VÌNTO


(Perdere ciò che si è guadagnato). Il modo di dire viene da lontano ed è probabilmente associato al ‟gioco della rulla” ormai dismesso. Consisteva nel lanciare caciotte di formaggio pecorino lungo un percorso stabilito. Chi arrivava primo vinceva le caciotte degli avversari. A volte succedeva che un solo concorrente riuscisse a vincere varie caciotte e, per non correre il rischio di riperderle, si ritirava dal gioco. Armangiàsse = rimangiarsi. È un verbo iterativo con il tipico prefisso aretino ar in sostituzione dell’italiano ri. La desinenza àsse dell’infinito è tipica dei verbi riflessivi aretini della I° coniugazione. In questo caso avviene l’assimilazione  rs > ss e il passaggio di si finale a se. Le particelle pronominali sono infatti in aretino  mé, té, cé, sé, vé. El = tipico articolo aretino per il. Càcio = è preferito nell’uso a formaggio. Pron. armangiass’ él kaȼió vintó.

armette lle dotte

ARMÉTTE LLE DÓTTE

(Recuperare il tempo perso). Il significato del modo di dire deriva dal fatto che dotta in italiano antico significa proprio tempo. Armétte = rimettere. Infinito breve di armétter. In aretino il prefisso iterativo è ar. [L]le = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. Pron. armétté  llé dótté.

a ruzzeli e baruzzeli

A RÙZZELI E BARÙZZELI

(Un po’ per volta, piano piano). Si dice quando siamo costretti a procedere lentamente, senza continuità, per cui il lavoro risulta poco produttivo. Rùzzeli, barùzzeli =  sostantivi derivati dai verbi ruzzelàre e baruzzelàre = ruzzolare, con evidente riferimento allo scorrere del tempo. Pron. a ruzzéli é baruzzéli.

a sciampannoni

A SCIAMPANNÓNI

(In modo disordinato). È una locuzione avverbiale che si usa per indicare situazioni di disordine. Sciampannóni = è un accrescitivo derivato dal verbo sciampannàre, variante di sciamannare = mettere in disordine. Pron. a sciampannóni.


asettè lla tavela

ASETTÈ LLA TÁVELA

(Apparecchiare la tavola). È quello che diceva il contadino alle sue donne quando si approssimava mezzogiorno: ‟oh dònne, è l’óra d’asettè lla tàvela”. Un tempo la giornata tipica del contadino era scandita dal sorgere e dal tramontare del sole e dal suono della campane. La diséna, cioè il pranzo, si faceva  sempre quando suonavano le campane di  mezzogiorno. Asettè = apparecchiare. È l’infinito breve del verbo asettère che in aretino significa anche cucire con l’ago. La desinenza ère è dovuta al fatto che nell’aretino stretto la a tonica  passava ad è aperta. Es: pane > pène. [L]la = quando il verbo ha l’infinito breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. Tàvela = tavola. In molte parole aretine la o postonica passa ad é chiusa. Es: favola > fàvela. Pron. aséttè lla tavéla.

aspettà ll' imbeccata

ASPETTÁ LL’IMBECCÀTA

(Aspettare il suggerimento, l’aiuto). Si dice con tono ironico a chi non sa cosa fare: o che aspètti, l’imbeccàta? È una frase che si usa sempre in senso metaforico. L’immagine è ripresa dal mondo degli uccelli dove i piccoli aspettano nel nido l’imbeccata della madre. Aspettà = infinito breve di aspettàr. [L]l’ = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. Pron. aspétta ll’imbékkata.

a stertoni

A STERTÓNI

È un’espressione che si usa di solito con i verbi lasciàre o méttere. Era molto usata nell’aretino del passato, oggi quasi dismessa. Significa lasciare o mettere le cose in giro, senza ordine, in modo confuso, a casaccio. È un eufemismo di tentóni da tentare = procedere per tentativi, quindi in modo casuale, a casaccio. Con il significato di mettere le cose in modo confuso, accatastarle in modo disordinato cosicché risulti difficile ritrovarle, si usa anche il verbo arupolàre, che è una variante del toscano rufolare= grufolare, raspare. Pron. a stértóni.                   

ataccà bbottone

ATACCÀ BBOTTÓNE

(Cercare la lite, verbale o fisica). È un modo di dire che si usa in senso metaforico. Ataccà = infinito breve di ataccàr. [B]bottóne = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rb > bb. La mancanza di una t si spiega con il fenomeno della degeminazione. Pron. atakkà bbóttóné.

a te t'ha dato de balt' el cervello

A TE T’HA DÁTO DE BÀLT’EL CERVÈLLO


(A te si è ribaltato il cervello), cioè tu non connetti più. La frase si dice a chiunque con parole o con fatti dimostri di aver perso le facoltà cognitive. A te t’ha dàto = in aretino il doppio complemento di termine è norma. De = preposizione semplice aretina per di. Da dde bàlta = tipica espressione aretina per ribaltare. El = tipico articolo aretino per il. Pron. a té t’ha dató dé balt’él cérvèlló.

a un tiro de schioppo

A UN TÌRO DE SCHIÒPPO


(A un tiro di fucile), cioè molto vicino. De = tipica preposizione aretina per di. Schiòppo = termine toscano per fucile. In realtà lo schioppo sarebbe il fucile a due canne parallele detto anche doppietta che era tipico dei cacciatori toscani. Il gruppo cchio ha pro- nuncia occlusiva postapalatale sorda. Pron. a un tiró dé sčòppó. [Nella scrittura con simboli la i non viene trascritta in quanto già compresa nel suono č].

avé lla faccia com' el culo

AVÉ LLA FÀCCIA CÓM’EL CÙLO

(Avere la faccia come il sedere), cioè non provare la minima vergogna nemmeno per i fatti più riprovevoli. Si dice con tono risentito e di forte rimprovero a chiunque abbia un comportamento irrispettoso o deleterio verso il prossimo. Avé = infinito breve di avér. [L]la = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. El = tipico articolo aretino per il. Cùlo = è sempre preferito a sedere. I dialetti sono molto più spontanei della lingua nazionale perciò usano anche espressioni che possiamo definire molto colorite. Pron. avé lla faccia kóm’él kuló.


avé ll' occhi come 'no zappone

AVÉ LL’ÒCCHI CÓME ’NÓ ZAPPÓNE

(Avere gli occhi come una grossa zappa). La frase si usa sia per indicare chi non non riesce a vedere bene o, in senso astratto, chi non sa valutare bene le cose o le situazioni. Avé = forma breve di avér. [L]l’ = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. [L]l’ = gli. In aretino si usa l’articolo l’ anche davanti a parola che inizia per o. Deriva dall’antico articolo li. Òcchi = il gruppo cchi ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. ’No = aferesi di uno. Zappóne = accrescitivo di zappa. Pron. avé ll’òčči kómé ’nó zappóné. 

avé ppiù faccia de pietro l' aritino

AVÉ PPIÙ FÀCCIA DE PIÉTRO L’ARITÍNO

(Aver più faccia di Pietro l’Aretino, cioè essere sfrontati al massimo. Pietro l’Aretino è un personaggio storico vissuto tra il 1492 e il 1556, noto per la sua vita sfarzosa e per essere un uomo violento, dedito al ricatto e ad una vita vissuta di espedienti. Avé = infinito breve di avér. [P]più = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila  alla consonante che immediatamente segue rp = pp. De = tipica preposizione aretina per di. Aritìno = la prima i di aritino si spiega con il fatto che la e protonica italiana in aretino passa spesso ad i. Es: sentimento > sintiménto. Pron. avé ppiù faccia dé Piétró l’Aritinó.


a voglia de ber ova

A VÒGLIA DE BÉR’ÓVA!


(A voglia di bere uova)! Si dice di tutto ciò che c’è in abbondanza, di un lavoro, di un’attività che possono prolungarsi, di qualcosa di difficile da realizzare che richiede tempo e fatica. De = tipica preposizione aretina per di. Óva =  per le parole derivate dal latino, l’aretino è più conservativo dell’italiano: mantiene infatti la o tonica originaria che assume suono chiuso: latino ovum > italiano uovo > aretino óvo. Pron. a vòglia dé bér’ óva.

batter' el greno


BÀTTER’EL GRÈNO

(Effettuare la trebbiatura del grano). Quando l’agricoltura non  era ancora meccanizzata, la trebbiatura del grano si faceva a mano. Le mànne, cioè i covoni di grano, venivano disposti nell’aia, sopra un telo, e i contadini, muniti di pertiche, lo battevano per separare i chicchi dalla pula: questo è il motivo per cui ancora oggi si dice battere il grano. Battér’ = trebbiare. El = tipico articolo aretino per il. Grèno = grano. Nell’aretino del passato la a tonica italiana passava ad e aperta. Es: pàne > pène. Pron. battér’ él grènó.

batter' un cristo 'n terra

BÀTTER’UN CRÌSTO ’N TÈRRA


(Fare una disastrosa caduta). È una frase che si usa in senso metaforico. Crìsto =  è qui usato nel senso di immagine di Cristo, statua, crocefisso, quindi si fa una caduta rovinosa come quando si sbatte in terra un’immagine sacra di Cristo. Pron. battér’un Kristó ’n tèrra.

belle che fatto

BÈLLE CHE FÀTTO


(Già fatto). Si dice di qualunque cosa fatta presto e bene. Bèlle = bello, nel significato di buono. Per capire il senso del modo di dire occorre far riferimento all’aggettivo  latino bellus  che ha sostituito nel latino classico il vecchio aggettivo benus = buono. Il diminutivo di benus nel latino arcaico era benulus, trasformatosi poi per sincope in benlus e infine per assimilazione nl > ll, in bellus con il significato che ha attualmente in italiano, ma mantenendo anche il significato originario di buono: il significato della frase è quindi in definitiva già fatto nel senso di fatto bene.  Pron. bèllé ké fattó.

belle che ito

BÈLLE CHE ÌTO

(Bello e andato, già andato). È un modo di dire in aretino stretto in genere usato in senso negativo, come dire già rovinato o, peggio ancora, morto. Per capire il senso del modo di dire occorre far riferimento all’aggettivo latino bellus che ha sostituito nel latino classico il vecchio aggettivo benus = buono. Il diminutivo di benus nel latino arcaico era benulus e infine per assimilazione  nl > ll e sincope di u, si è trasformato in bellus con il significato che ha attualmente in italiano. Íto = è il participio aretino del verbo ìre, formatosi dal latino itum  (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Pron. bèllé ké itó.

ber' a gargarozzo

BÉR’ A GARGALÒZZO


(Bere a garganella), cioè lasciando cadere il liquido direttamente nella bocca. Gargalòzzo = forma popolare per gola. Pron. bér’ a gargalòzzó.

buscann' a queloddio

BUSCÁNN’A QUÉLODDÍO


(Prenderle di santa ragione). È un modo di dire antico, ma ancora oggi molto usato. Si usa quando, per i più diversi motivi, si ha la meritata punizione, come se il castigo fosse dovuto ad una sorta di giustizia divina. Buscànn’ = buscarne, infinito apocopato con assimilazione rn > nn. Quélo = quello. La mancanza di una l si deve al tipico fenomeno aretino della degeminazione. [D]dìo = quando la parola Dio è pronunciata assieme alla precedente la d si raddoppia quéloDdìo, Dòmeneddìo. Pron. buskann’a kuélóDdió.

buttaccese a corpo morto

BUTTÀCCESE A CÒRPO MÒRTO


(Buttarcisi a corpo morto), cioè fare una cosa con il massimo impegno). Si dice ogni volta che un’azione, magari anche difficoltosa, richiede la massima attenzione e il massimo sforzo. Buttàccese = buttarcisi. La parola è formata da tre parti: buttar, ce se. Buttàr = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila  alla consonante che immediatamente segue rc > cc. Ce = avverbio di luogo aretino per ci. Se = in aretino le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé, vé. Pron. buttaccésé a kòrpó mòrtó.

buttaccese com' el gatto a' bedelli

BUTTÀCCESE CÓM’EL GÀTTO A’ BUDÈLLI

(Buttarcisi come fa il gatto con le budella), cioè essere attratti irresistibilmente da qualcosa o qualcuno). Si usa sempre in senso metaforico. Nel mondo contadino del passato il gatto non era ancora un animale da affezione, si teneva perché era utile nella caccia ai topi che non erano rari nelle case coloniche. Il suo cibo non erano i croccantini come oggi, ma solo roba di scarto tra cui anche le budella. La fame dell’animale era sempre grande per cui, quando capitava un’occasione simile, il gatto vi si gettava a capofitto. Buttàccese = buttarcisi. La parola è formata da tre parti: buttar, ce, se. Buttàr = infinito breve di buttàre. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rc > cc. Ce = avverbio di luogo aretino per ci. Se = si. In aretino le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé, vé. El = tipico articolo aretino per il. Budèlli = in aretino esiste solo la forma maschile. Pron. buttaccésé kóm’él gattó a’ budèlli.

butta vvia el rann' el zapone

BUTTÀ VVIA EL RÀNN’E ’L ZAPÓNE

(Buttare via il ranno e il sapone), cioè perdere tutto, mandare in fumo il lavoro fatto. Buttà = infinito breve di buttàr. [V]vìa = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rv > vv. El = tipico articolo aretino per il. Rànno = miscuglio di acqua e cenere usato un tempo dalle massaie per lavare i panni. Zapóne = la z è dovuta al fatto che in aretino i gruppi ls, ns, rs sono sempre pronunciati lz, nz, rz. Pron. buttà vvia él rann’é ’l zapóné.

cacass' adosso pe' la paura

CACÀSS’ADÒSSO PÉ’ LA PAÙRA


(Farsela addosso per la paura). Si dice, di solito in senso metaforico, come conseguenza di una grande paura: me so cacàto adòsso pe’ la paùra! Cacàsse = cacarsi. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, sé, sé, vé. Quando l’infinito è riflessivo si ha sempre l’assimilazione rs > ss. Adòsso = addosso. La mancanza di una d è dovuta alla degeminazione. Pe’ = apocope di pér. Di solito quando la r è seguita da l, avviene l’assimilazione rl > ll. In questo caso non avviene perché, come nel caso delle preposizioni articolate, le due parole vengono pronunciate staccate e sempre degeminate. Es: dello > de lo, nella > ne la. Pron. kakass’adòssó pé la paura.

cader' a babo morto

CADÉR’A BÁBO MÒRTO


(Cadere come farebbe un peso morto, cioè fare un tremendo capitombolo).  Bàbo = nei proverbi e modi di dire aretini il babbo è spesso presente. Babbo è una tipica parola toscana, ma in aretino si pronuncia con una sola b per il fenomeno della degeminazione. [Cfr. dàlle o pigliàll’ a bàbo mòrto = darle o prenderle di santa ragione]. Pron. kadér’a babó mòrtó, dallé o pigliall’a babó mòrtó.

cadere sul tritello

CADÉRE SUL TRITÈLLO


Cadere su qualcosa di nessun valore, quindi, in senso traslato, fare una pessima figura. Tritèllo = è un sottoprodotto della macinazione dei cereali, qui usato in senso metaforico per indicare cosa di scarso valore. Pron. kadéré sul tritèlló.

caldo com' el piscio

CÀLDO CÓM’EL PÌSCIO


(Caldo come l’orina). Si dice con disappunto e fastidio quando, soprattutto in estate, per trovare sollievo, vorremmo bevande fresche e non le abbiamo a disposizione. El = tipico articolo aretino per il. Pìscio = nell’uso è sempre preferito ad orina. Pron. kaldó kóm’él pisció.

canta canta villan dorme

CÀNTA, CÀNTA, VILLÀN DÒRME

(Canta, canta, il villano dorme). È un modo di dire forse nato in ambiente contadino, oggi usato nelle circostanze più varie, dato che nella veste attuale, non ha un senso compiuto. La dizione originaria era infatti càrta cànta, villàn dòrme. Quando gli accordi tra proprietario e contadino (villan) erano solo orali, nelle dispute era sempre il contadino ad avere la peggio, quando invece erano messi per iscritto (carta canta), il contadino poteva dormire sogni tranquilli (dorme) perché lo scritto non poteva essere confutato. Pron. kanta, kanta, villàn dòrmé.

castre lle brice

CASTRÈ LLE BRÍCE


(Castrare le castagne). È un’operazione che si faceva e si fa prima di cuocere sulla padella bucata le castagne, cioè occorre praticare una incisione nella buccia affinchè non scoppino. È una frase espressa in aretino stretto. Castrè = infinito breve di castrèr. [L]le = quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonante che immediatamente segue rl > ll. Brìce = termine aretino per castagne. Pron. kastrè llé briȼé.

cavaggnene troppe

CAVÀGGNENE TRÒPPE o TÙTTE


(Cavargliene troppe o tutte), cioè soddisfare anche il minimo desiderio, dargliela sempre vinta. Si dice con tono di rimprovero ai genitori disposti ad accondiscendere tutti i desideri dei figli o a soddisfare tutti i loro capricci. Cavàggnene = formato da cavàr, gne, ne. Cavàr = infinito breve di cavàre. Quando l’infinito è breve la r della desinenza si assimila alla consonanate che immediatamente segue rg > gg. [G]gnéne = gliene. La forma gne è derivata da gnie in cui si è avuta la sincope di i per una pronuncia più agevole. Gni è un complemento di termine che traduce le forme italiane gli, le, a lui, a lei, loro. Pron. kavagnéné tròppé o tutté.

cavar' el vin da fiaschi

CAVÀR’EL VÌN DA’ FIÀSCHI

(Cavare il vino dai fiaschi), cioè cercare di risolvere una situazione ingarbugliata, problematica. È chiaramente un modo di dire che si usa in senso metaforico. Cavàr’ = è sempre preferito a togliere. El = tipico articolo aretino per il. Fiàschi = recipiente di vetro soffiato della capacità di due litri impagliato con erbe palustri, tipico della civiltà contadina. Pron. kavar’ él vin da fiaski.

cavasse da' coglioni

CAVÀSSE DA’ COGLIÓNI

(Andarsene, togliersi di mezzo). È un modo di dire usato in senso metaforico che ha larga diffusione. Cavàsse = infinito riflessivo per cavarsi. La forma àsse è dovuta al fatto che, per avere una pronuncia più agevole, si ha l’assimilazione rs > ss. Il se è dovuto al fatto che in aretino le particelle pronominali sono  tè,cé sé, vé. Da’ = forma apocopata per dai. Coglióni = è sempre preferito all’italiano testicoli. Pron. kavassé da kóglióni.


cavasse la sete col pruciutto

CAVÀSSE LA SÉTE COL PRUCIÙTTO

(Cavarsi la sete con il prosciutto). Si usa sempre in senso metaforico. Significa compiere azioni che tornano a propro svantaggio. Cavàsse = cavarsi. Ásse è la tipica desinenza dell’infinito riflessivo della I° coniugazione aretina. È formata da ar e se con assimilazione rs > ss. Il se è dovuto al fatto che in aretino le particelle pronominali sono mé, té, cé, sé, vé. Pruciùtto = prosciugato, perché il prosciutto si mette a stagionare affinché si liberi dell’acqua. Pron kavassé la sété kól pruȼiuttó.


cencio disse mal de straccio

CÉNCIO DÌSSE MAL DE STRÀCCIO


Il modo di dire gioca sulle parole cencio e straccio che sono sinonimi. È una frase che si pronuncia con tono ironico e di rimprovero quando qualcuno, che ha un comportamento censurabile, si permette di criticare un’altra persona. De = tipica preposizione semplice aretina per di. Pron. ȼénció dissé mal dé stracció.

ce n'o 'n buscario

CE N’Ò ’N BUSCARÍO

(Ne ho una grande quantità). Frase che si usa con un certo orgoglio quando qualcuno ci chiede qualcosa, ma dubita che la possediamo. Esistono altri modi di dire con lo stesso significato: un futtìo, ’na barocciàta, ’na rópa, un bisibìgglio. Ce =  di quello. Ò = prima persona singolare del presente indicativo del verbo avere = ho. ’N = forma aferetica di un. Buscarìo = deverbale dal verbo buscàre = guadagnare. Pron. ȼé n’ò ’n buskarió, un futtió, ’na barócciata, ’na rópa, un biʃibigglió.

ce pu metter' el lesso

CE PU MÉTTER’EL LÉSSO


(Ci puoi mettere il lesso). È una frase che si usa in senso metaforico. Significa puoi esserne certo. Ce = ci. L’avverbio di luogo italiano ci in aretino si pronuncia sempre ce. El = tipico articolo aretino per il. Lésso = carne bollita. Il lesso era uno dei pochi modi in cui le classi meno abbienti potevano mangiare la carne nel passato, poiché era di scarso pregio e quindi di basso prezzo. Pron. ȼé pu méttér’él léssó.

ce sta com' el cavel' a marenda

CE STA CÓM’EL CÀVEL’A MARÈNDA


(Ci sta come il cavolo a merenda) cioè non ci azzecca niente, è proprio fuori luogo. È una frase in aretino stretto che si pronuncia per riprendere qualcuno che dice o fa cose che non sono assolutamente pertinenti. Ce = avverbio di luogo per ci. El =  tipico articolo aretino per il. Càvel’ = cavolo. La e si spiega con il fatto che spesso la o postonica italiana in aretino passa ad é chiusa. Es: tavolo > tàveloMarènda = forma tipicamente aretina per merenda. Pron. ȼé sta kóm’él kavél’a marènda.

ce vorrebb' el dottor menanni

CE VORRÈBB’EL DOTTÓR MENÀNNI


(Ci vorrebbe il dottor  Meno Anni). È una frase di solito detta con rassegnazione da persone anziane e piene di acciacchi, per cui qualunque medicina non ha efficacia e l’unica soluzione per stare meglio sarebbe trovare qualcuno che toglie gli anni. Ce = ci. Come la particella pronominale, anche l’avverbio di luogo italiano ci in aretino si pronuncia . El = tipico articolo aretino per il. Menànni = Meno Anni, dottore immaginario capace di ridare la giovinezza. Pron. ȼé vórrèbb’ él dóttór Menanni.

ch'acechi si 'nn' è vero

CH’ACÉCHI SI ’NN’È VÉRO!


(Che diventi cieco se non è vero)! È un modo di dire che viene dal passato, ma ancora oggi molto usato. Si dice ogni volta che intendiamo confermare la nostra buona fede. Acéchi = è un congiuntivo esortativo. La mancanza di una c si spiega con il fenomeno della degeminazione. Si = congiunzione condizionale per l’italiano se. ’Nn’ = forma aferetica di un, tipica negazione aretina con geminazione di n. Quando un è seguito da vocale la n è sempre geminata. Pron. k’aȼéki si ’nn’è véró.

che casino

CHE CASÍNO!


La frase in aretino ha più significati: la parola casino infatti vuol dire di solito confusione, ma anche guaio, quindi quando un aretino dice che casino si può riferire tanto ad una situazione conusa, quanto ad un guaio commesso o subito. Pron. ké kasinó!

che discorzi da coglione

CHE DISCÓRZI DA COGLIÓNE!


(Che discorsi da fesso)! Si dice con tono di rimprovero o in modo ironico a chi fa discorsi non pertinenti o illogici. Coglióne =  è un termine che in aretino ha vari significati. In senso generico significa minchione, fesso, ma anche persona poco affidabile o che può essere facilmente raggirata. Al plurale è sinonimo di testicoli. Discórzi = La z si spiega con il fatto che in aretino il gruppo rs è sempre pronunciato rz. Pron. ké diskórzi da kóglióné!

ch' è successo? 'na mosc' ha fatt' un processo

CH’È SUCCÈSSO? ’NA MÓSC’HA FÁTT’UN PROCÈSSO!


(Che è successo? Una mosca ha fatto un processo). È una risposta in senso ironico per dire a chi domanda che non è proprio successo niente. Pron. k’è succèssó? ’Na mósk’a fatt’un próȼèssó.

che vu la pappa scudellata?

CHE VU LA PÀPPA SCUDELLÀTTA?

(Che vuoi la pappa scodellata)? Si dice con tono risentito e di rimprovero a chi pretende di trovare tutto già pronto, preparato da qualcun altro. Vu = vuoi. Il verbo volere ha una coniugazione propria (per approfondimenti  puoi  consultare I verbi nell’uso aretino della stesso autore). Scudellàta = scodellata. La u si spiega con il fatto che in aretino la o protonica  italiana passa di solito ad u. Es: olivo > ulivo.Pron. ké vu la pappa skudéllata?

chi paga prima secca la vigna

CHI PÀGA PRÌMA SÉCCA LA VÌGNA

Si usa in senso figurato: significa che chi paga prima corre il rischio di non avere niente. In senso metaforico è un invito ad essere sempre prudenti, a non fidarsi troppo. Chi = ha suono occlusivo postpalatale sordo. Pron. či paga prima sékka la vigna. 

chi vol cristo se lo preghi

CHI VÓL’ CRÌSTO SE LO PRÉGHI


È come dire chi vuole qualcosa si dia da fare per ottenerla. È un modo di dire espresso in aretino stretto. Chi = ha pronuncia occlusiva postpalatale sorda. Vól’ = è la forma apocopata di vóle = vuole. Il verbo volere in aretino ha una coniugazione propria (per approfondimenti puoi consultare I verbi nell’uso aretino dello stesso autore). Pron. či vól Kristó sé ló préghi. 

ci a trovo 'l padrone

CI Á TRÓVO ’L PADRÓNE


(Ci ha trovato il padrone). Si dice di chiunque abbia avuto la giusta punizione per aver commesso un fatto illecito.  A = ha. Tróvo =  participio breve del verbo trovare = trovato. In aretino usare il participio breve è tipico. Es: comprato > cómpro. ’L = forma aferetica dell’articolo el = il. Pron. ȼi a tróvó ’l padróné.

coglioni babo

COGLIÓNI, BÁBO!


(Accidenti, babbo!)  La frase si usa per manifestare meraviglia o stupore. È un po’ come dire ‟che coglioni (testicoli) grossi che hai babbo!” Bàbo = babbo. Babbo è un termine tipicamente toscano. In aretino assume la forma bàbo per il fenomeno della degeminazione. Nel nostro dialetto esistono due fenomeni opposti, la geminazione e la degeminazione, cioè per una sorta di stranezza linguistica l’aretino raddoppia la consonante in alcune parole italiane che ne hanno una, es: popone > poppóne, uva > ùvva e ne toglie una dove in italiano c’è la doppia, es: camminare > caminàre, baccello > bacéllo). Pron. kóglióni, babó, póppóné, baȼélló.  

co' la pacenzi' e la vasillina

CO’ LA PACÈNZI’ É LA VASILLÌNA, L’ELEFÀNTE ’NCULÒ LA GALÍNA.


(Con la pazienza e la vasellina l’elefante sodomizzò la gallina). La frase è sempre usata in senso metaforico. Significa che con la pazienza e gli strumenti adatti si può fare una cosa che sembrerebbe impossibile. Pacènzia = la forma apparentemente strana della parola è probabilmente dovuta al fatto che, nel passaggio dal latino patientia all’aretino, il gruppo tie ha mutato suono in cie con successiva metatesi di i: patientia > pacienza > pacènzia. Vasillìna = la i al posto della e è dovuta al fatto che in aretino la e protonica italiana passa spesso ad i. Es: delinquente > dilinguènte. ’Nculò = il verbo inculare è sempre preferito a sodomizzare. Galìna = la mancanza di una l si spiega con il fenomeno della degeminazione. Pron. kó’ la paȼènzia é la vaʃillina, l’éléfanté ’nkulò la galina.

col cazzo che l'artrovi

CÓL CÀZZO CHE L’ARTRÓVI


(Non lo ritrovi assolutamente). Si dice con tono ironico a chi ha perso qualcosa o di piccole proporzioni o di valore. Cól = concrezione di con il. Càzzo = è ritenuta una parola volgare, ma in aretino è sempre preferita a pene o sinonimi. Artróvi = ritrovi. In aretino il prefisso iterativo è ar invece di ri. Pron. kól kazzó ké l’artróvi.

col tu' bene, col tu' mele

CÓL TU’ BÉNE, CÓL TU’ MÈLE, ME CE SCIÀCQUO L’URINÈLE      


(Con il tuo bene, con il tuo male mi ci sciacquo il vaso da notte). Era un modo di dire molto in uso nel passato, oggi quasi del tutto dimenticato. Significa: che tu mi voglia bene o che tu mi voglia male, non mi interessa niente, cioè mi sei del tutto indifferente. Tu’ = apocope di tuo. In aretino gli aggettivi possessivi apocopati sono una regola. Mèle, urinèle  = male, orinale. In aretino stretto la a tonica italiana era sempre pronunciata e aperta. Es: pane > pène. Me, ce  = mi, ci. Le particelle pronominali in aretino sono mé, té, cé, sé, vé. Urinèle =  orinale, vaso da notte. Pron. kól tu’ béné, kól tu’ mèlé, mé ȼé sciakkuó l’urinèlé.

conciasse com' un zallazzero

CONCIÀSSE CÓM’UN ZALLÀZZERO

(Conciarsi come un S. Lazzaro). Si usa in senso figurato con vari significati: essere vestito da straccione, molto sporco, ridotto proprio male. Il modo di dire deriva da S. Lazzaro, mendicante lebbroso protagonista della parabola di Gesù ‟Lazzaro e il ricco epulone.” Conciàsse = conciarsi. Quando l’infinito è riflessivo si ha l’assimilazione rs > ss. Il se si deve al fatto che in aretino le particelle pronominali sono  mé, té, cé, sé, vé. Zallàzzero = S. Lazzaro. La z si deve al fatto che in aretino i gruppi italiani ls, ns, rs, sono sempre pronunciati lz, nz, rz. La doppia l si deve all’assimilazione, per una pronuncia più agevole, nl > ll. Pron. kónciassé kóm’un Zallazzéró.